Con l’inizio dell’anno scolastico si pone l’esigenza di affrontare i cosiddetti Dsa con strategie più moderne. Il parere degli psicologi.
La Legge 8 ttobre 2010 n. 170 (“Nuove norme in materia di disturbi specifici dell’apprendimento in ambito scolastico”) riconosce la dislessia, la disgrafia, la disortografia e la discalculia come disturbi specifici di apprendimento, denominati Dsa. In seguito al loro riconoscimento legale si è notato un forte aumento di casi diagnosticati. Ciò è anche dovuto all’aumento di interesse generale attorno alle tematiche dei disturbi dell’apprendimento.
La possibilità di riconoscere in modo prematuro questi disturbi e di intervenire con strumenti adeguati è una fondamentale tutela per gli studenti, che a differenza del passatom possono utilizzare i giusti approcci per apprendere in modo atraumatico, nonostante le loro difficoltà. Questa forte attenzione e sensibilizzazione al mondo Dsa, come veniva denunciato dall’ Istituto di Ortofonologia, non deve diventare però una continua caccia alle streghe, dove ogni segnale viene catalogato da insegnanti o genitori come segno di un disturbo.
Non tutti i bambini non apprendono perchè affetti da un disturbo, ma, come sostiene il direttore dell’IDO, molto spesso sono poco motivati e non hanno la volontà di apprendere. I bambini ansiosi e ansiosissimi vivono dei blocchi di fronte agli apprendimenti, anche alla semplice lettura. Negli adulti li chiamiamo attacchi di panico. Nei bambini sono blocchi – chiariscono gli piscologi che operano all’IDO -. Il risultato è lo stesso: entrambi non riescono ad andare avanti. Da una parte abbiamo bambini che riescono a scrivere molto bene, ma non sanno rispondere verbalmente all’interrogazione, e dall’altra bambini che rispondono verbalmente, ma poi lasciano il foglio bianco.
Spiega Anna Oliverio Ferraris, già ordinario di Psicologia dello sviluppo alla Sapienza di Roma, che molte difficoltà di ordine e apprendimento dei bambini alle scuole elementari e medie è dato da un approccio errato dei genitori, i quali non pensano che gli insegnanti abbiano il diritto di chiedere ordine e rispetto delle regole. E per questo propone che a ogni inizio di anno scolastico le scuole presentino alle famiglie un piano educativo, oltre al piano didattico, in modo da poter intervenire senza che i genitori protestino.
Una volta in aula, poi, il docente dovrebbe mettere in atto una serie di strategie di conduzione delle dinamiche di classe, che vanno dall’utilizzo della voce, alla comunicazione non verbale, alla padronanza della situazione, e non solo – come purtroppo a volte avviene nelle aule italiane – esercitare una didattica passiva e non attenta ai singoli. In un’era cosi frenetica e digitale non si può pretendere di affidarsi esclusivamente alla didattica tradizionale, fatta di lezioni frontali, interrogazioni e studio a casa: così dfficilmente si riesce a catturare l’attenzione degli studenti.
Come sostiene Anna Oliverio Ferraris, “una situazione di caos in classe dipende anche da una didattica inadeguata”. Ormai una sola didattica di gesso e lavagna non accresce l’interesse dei bambini, e dunque non ne cattura l’attenzione. Per interessare i ragazzi nelle varie materie, queste possono essere introdotte in modo accattivante. Ad esempio la storia si può introdurre con un argomento tratto dalla vita quotidiana di un personaggio. Per le scienze si può usare il laboratorio o andare al parco. Utile anche una gestione intelligente delle materie. “Se i ragazzi iniziano la giornata con l’ora di educazione fisica o con quella di musica, per poi passare all’italiano o alla matematica, sono molto più efficienti – sostiene ancora Oliverio Ferraris -. Si ossigena il cervello dopo la notte”.
Come afferma il pedagogista Luigi D’Alonzo, autore de La differenziazione didattica per l’inclusione, occorre motivare i ragazzi con una didattica attraente, non stantia. E se in classe si hanno problematiche, bisogni e abilità differenti, ci saranno modi di apprendimento differenti. Non si può pretendere che tutti facciano la stessa cosa nello stesso momento. Si tratta di cambiare il modo di pensare l’insegnamento: non attività, tempi o anche contenuti uguali per tutti, ma riconoscimento delle differenze e valorizzazione, per quanto possibile, degli interessi degli allievi, per raggiungere in modo totale gli obiettivi.
Insomma, gli strumenti come la certificazione PDP (Piano didattico personalizzato), gli strumenti compensativi e le misure dispensative introdotte nelle scuole italiane, sono un ottimo mezzo per aiutare e riconoscere gli alunni affetti da disturbi dell’apprendimento e aiutarli ad andare oltre le difficoltà, ma non bastano: bisogna evolvere e modernizzare le basi della didattica. Se gli studenti sono molto cambiati, forse la scuola non lo è ancora abbastanza. Un ragazzo di oggi non deve sentirsi frustato di fronte alle difficoltà, ma la scuola deve aiutarlo a comprendere che, se anche sbaglia, non è importante: ciò che conta è che arrivi alla meta.
Valeria Pischetola
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