L’anticorpo monoclonale teplizumab, capace di “modificare la traiettoria” del diabete di tipo 1, è già stato approvato dalla Fda americana nel novembre 2022.
Mentre un recente studio su Lancet rivela proiezioni allarmanti sul carico globale del diabete per il 2050, le persone con diabete di tipo 1 in stadio 2, attendono, in Europa e in Italia, l’arrivo di teplizumab, il primo farmaco al mondo capace di “ritardare” la malattia di due-cinque anni.
Teplizumab è infatti capace di “modificare la traiettoria malattia”, trattandosi di un anticorpo monoclonale “umanizzato” (in cui, cioè, sono state modificate, in laboratorio, alcune parti proteiche di origine murina in modo che l’organismo non attivi una risposta immunitaria), che in diversi studi ha mostrato la capacità di ritardare l’esordio clinico del diabete di tipo 1 in pazienti dagli otto anni in poi. Gli studi condotti hanno portato all’approvazione della molecola da parte dell’ente regolatorio amaricano Fda nel novembre del 2022.
Se nel 2021 circa 529 milioni di persone vivevano con il diabete (il 6% della popolazione mondiale), le stime per il 2050 ci descrivono uno scenario allarmante con circa 1,31 miliardi di persone e con un incremento di quasi il 300%. La crescita della popolazione, l’invecchiamento e l’incremento dell’obesità sono i fattori dell’aumento del numero di casi di diabete di circa l’1,7 % all’anno.
In tutto il mondo ci sono 8,4 milioni di persone con diabete di tipo 1 e nel 2021 ci sono stati 0,5 milioni di nuovi casi diagnosticati in età infantile adolescenziale. Si prevede che entro il 2040 questo numero aumenterà tra 13,5 e 17,4 milioni di casi.
“C’è una grande attesa in Europa e in Italia, dove si attende il via libera di Ema (l’Agenzia europea per i medicinali) e Aifa, perché Teplizumab ha mostrato di essere efficace nel prevenire la perdita di funzione delle cellule beta del pancreas, che nei soggetti con diabete mellito sono aggredite e progressivamente distrutte dal sistema immunitario del paziente”, spiega la professoressa Raffaella Buzzetti, presidente eletto della Società Italiana di Diabetologia (SID).
“Si tratta di un vantaggio importante che offre mesi e anni liberi dalla malattia, la possibilità di pianificare e organizzare la vita e, perché no, prendere tempo rispetto a trattamenti che potrebbero curarla – aggiunge Buzzetti –. Nello studio TN-10 con un ciclo di terapia endovena di 14 giorni, teplizumab ha ritardato di 25 mesi l’esordio della malattia, mentre un aggiornamento dello studio del 2021 ha mostrato un ulteriore vantaggio, rimandando l’appuntamento con la diagnosi di 32,5 mesi”.
E ancora: “Gli studi ci hanno mostrato che l’insorgenza annua della malattia era del 35,9% nel gruppo trattato con placebo e del 14,9% in quello trattato con Teplizumab, ma non solo: è stata evidenziata la capacità di ridurre l’attività aggressiva dei linfociti T CD8+, quelle che riducono la capacità delle cellule beta del pancreas di funzionare”.
La sfida attuale di fronte a questa nuova opportunità è identificare il paziente che ne possa trarre vantaggio: “Possono beneficiarne i soggetti con più di 8 anni di età con predisposizione al diabete tipo 1, nei quali quindi lo screening abbia evidenziato due o più autoanticorpi e che abbiano una condizione di disglicemia – sottolinea il professor Angelo Avogaro, presidente SID -. Per questo è necessario un programma di screening che individui i soggetti con diabete di tipo 1 allo stadio 2. Un obiettivo che può essere raggiunto con un semplice ed economico prelievo di sangue su alcune fasce della popolazione e con l’istituzione di un Registro Nazionale di Patologia”.
La possibilità di ritardare lo sviluppo della malattia offre mesi e anni di libertà. Il diabete di tipo 1 si sviluppa il tre stadi: quasi tutti i pazienti allo stadio 2 passano al terzo entro 1-5 anni. Lo stadio 3 è il più insidioso con l’entrata nella routine dei numerosi controlli glicemici e delle iniezioni di insulina.
Gli effetti collaterali più comuni interessano reazioni nella sede dell’infusione, sintomi simil influenzali, affaticamento e dolori articolari, nausea, cefalea. Meno comuni sono invece la sindrome da rilascio di citochine (una seria reazione infiammatoria sistemica), linfopenia (ossia la diminuzione dei linfociti) che tornano alla normalità in circa 30 giorni, riattivazione di infezioni come TBC e Epstein Barr Virus.
Redazione Nurse Times
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