Lo dice Marco Vergano, rianimatore del San Giovanni Bosco di Torino e tra i redattori delle Raccomandazioni in 15 punti rivolte a migliaia di colleghi dalla SIAARTI.
“Sta già succedendo: in alcuni ospedali si è già costretti a scegliere a chi dare la priorità in terapia intensiva, perché siamo in uno scenario che può essere assimilato alla medicina di guerra o alle catastrofi”. Marco Vergano, medico anestesista rianimatore dell’ospedale San Giovanni Bosco di Torino, è tra i redattori delle Raccomandazioni in 15 punti rivolte a migliaia di colleghi dalla SIAARTI (Società italiana di anestesia, analgesia, rianimazione e terapia intensiva).
In una di queste c’è scritto: “Può rendersi necessario porre un limite di età all’ingresso in terapia intensiva. Non si tratta di compiere scelte meramente di valore, ma di riservare risorse che potrebbero essere scarsissime a chi in primis ha più probabilità di sopravvivenza”.
In concreto, chiarisce all’AGI il rappresentante della società scientifica, “la polmonite da Covid-19 ha un decorso più breve e più benigno in chi è più giovane e sano: se un paziente ultranovantenne (ma potrebbe essere anche un ultrasettantenne con plurime patologie) si presenta al pronto soccorso con una polmonite da coronavirus, lo si sottopone a terapia farmacologica e ossigenoterapia, ma se quest’ultima non basta e l’insufficienza respiratoria progredisce, non lo si dovrebbe ricoverare in terapia intensiva”.
E aggiunge: “Su quanto si possa essere trasparenti nel comunicare questa scelta è difficile dirlo: la comunicazione è un dovere deontologico, ma è logico che chi è dispnoico non sempre è in grado di comprendere e il medico potrebbe avere tutto l’onere della scelta”. Senza terapia intensiva, questo tipo di paziente “magari guarisce ma, se dovesse peggiorare, morirebbe; ovviamente con le cure palliative del caso, oggetto di uno dei punti delle raccomandazioni”.
Prosegue il medico: “Sono scelte a volte inevitabili, che compie ad esempio chi arriva dov’è esplosa una bomba in uno scenario bellico, dove può succedere che porti in sala operatoria un bambino e magari non suo nonno. Abbiamo scritto queste raccomandazioni sapendo che in una zona rossa, nei prossimi giorni, alcuni nostri familiari potrebbero rimanere fuori dalla terapia intensiva. Il peso è inevitabile, ma queste raccomandazioni possono essere una sorta di consolazione per molti colleghi. Per chi è costretto a compiere scelte di questo tipo, sapere che la tua Società Scientifica ti supporta è una forma di sostegno. I medici stanno lavorando 24 ore al giorno e sono stremati. Poi, a tutela di tutti, è previsto che queste decisioni siano collegiali e chi è indeciso può chiedere una seconda opinione. Questo documento, anzi, limita potenziali eccessi di limitazioni alla terapia intensiva proprio perché stabilisce dei criteri”.
Sulla reazione a questi punti, il medico dice: “Sui social, per quel poco che ho visto, la maggioranza dei colleghi è d’accordo nel definirle magari ‘inquietanti e dure, ma necessarie. Le raccomandazioni non sono comunque vincolanti, non sono linee guida. Abbiamo iniziato a scriverle lunedì scorso quando l’Unità di crisi lombarda ha iniziato a presagire una possibile catastrofe sanitaria”.
E ancora: “All’inizio la soglia dell’accesso alla terapia intensiva può essere bassa. Posso ammettere quasi tutti, ma la settimana dopo mi trovo tutti i pazienti della settimana prima che non sono ancora guariti. L’afflusso intanto è triplicato e, mentre i primi che ho ricoverato sono anziani perché spesso sono i primi ad ammalarsi in quanto più fragili, poi mi trovo con pazienti magari piu’ giovani e sani per i quali però non ho posto. Anche se ho aumentato i letti intensivi con sforzi sovrumani, chiudendo interi blocchi operatori. In quel caso interviene la rete, si cercano altri ospedali dove mandarli ma a un certo punto non si trovano altri posti, anche la rete è satura. Può succedere quindi che muoiano i pazienti rimasti fuori dalla Terapia Intensiva, ma che muoiano anche i primi che ho ricoverato, che spesso sono troppo deboli per sopravvivere. In questi giorni, ci sono ospedali con pazienti intubati fuori dalle unità intensive, talvolta negli studi medici, ovunque ci sia ossigeno. Sono scelte complesse ed emotivamente pesanti. Ma è un po’ come succede con la medicina dei trapianti, dove purtroppo le persone possono morire in attesa di un organo perché gli organi sono allocati non solo a chi è iscritto da piu’ tempo in lista, ma a chi ha la maggior probabilità di sopravvivere con quel trapianto”.
A chi critica questa medicina, che è costretta a scegliere chi vive o muore, il medico ribatte: “E’ la straordinarietà della situazione a renderlo inevitabile, perché se così non fosse morirebbero molte più persone. E’ una scelta talvolta drammatica, ma che permette di massimizzare i benefici per il maggior numero di persone”.
Redazione Nurse Times
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