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Coronavirus, Palù (Aifa) a tutto campo: varianti, vaccini e prospettive

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Coronavirus, Palù (Aifa) a tutto campo
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Rilanciamo un’intervista rilasciata dal presidente dell’Agenzia Italiana del Farmaco al Fatto Quotidiano.

“Che la variante inglese sia più letale del 30% non è scritto su nessuno studio. Lo ha sostenuto solo il primo ministro Boris Johnson, senza base scientifica”. Così il virologo Giorgio Palù, da un mese presidente dell’Agenzia Italiana del Farmaco (Aifa).

Johnson avrebbe mentito?
“Come politico, lui vede l’opportunità di imputare all’evoluzione genetica del virus la causa della contingenza epidemica in Uk, nascondendo eventuali responsabilità rispetto a scelte che non hanno funzionato. Se la variante circola di più, può contagiare un numero maggiore di persone e produrre un significativo incremento di patologie gravi, ma non significa che sia più virulenta o più letale di per sé”.

Non la preoccupa?
“Dagli studi a disposizione no. Un virus relativamente poco letale come SarsCov2, che diventa improvvisamente più virulento non si è mai visto, dovrebbe tendere a comportarsi come virus endogeno alla specie umana, che è divenuta l’ospite naturale del virus. Due varianti rappresentano un’incognita: quella sudafricana e quella brasiliana. Sembra che la capacità neutralizzante di alcuni sieri convalescenti nei confronti di queste varianti sia di circa dieci volte inferiore e che anche gli anticorpi di alcuni soggetti vaccinati diano una risposta minore. Si teme, senza certezze, che possano sfuggire ai vaccini”.

Serve una struttura più avanzata nello studio di sequenziamenti e varianti?
“Sì, le mutazioni vanno studiate per monitorare l’evoluzione genetica del virus e la risposta immunitaria dei soggetti vaccinati, e comprendere se le varianti insorte sfuggano o meno al controllo vaccinale. Dovremo presto attrezzarci anche in Italia: ci siamo accorti di quanto sia importante”.

Quando finirà l’incubo?
“Siamo alle prese con il primo coronavirus pandemico che per alcune caratteristiche biologiche non è ancora del tutto conosciuto, anche se nella storia tutte le pandemie di virus e batteri sono durate al massimo due anni. Oggi non c’è però luogo al mondo dove vivano popolazioni in isolamento e dove non possa arrivare un agente infettivo contagioso, e questo cambia un po’ il quadro. Ma mai nella storia c’è stata una risposta della scienza tale: in soli dieci mesi è arrivata non a uno, ma a diversi vaccini. In primavera, comunque, potremo fare una valutazione più precisa sul futuro”.

I rallentamenti di Pfizer e AstraZeneca sono motivi di allarme?
“Difficile arrivare all’obiettivo di 42 milioni di vaccinati entro l’autunno con i ritmi attuali, ma Pfizer ha sistemato due stabilimenti per ripartire con una produzione maggiore di quanto previsto sin dal 15 febbraio. Ritarda AstraZeneca, ma l’Ema sta valutando già il russo Sputnik, e poi sarà la volta di Sinovac dalla Cina. Seguiranno il tedesco CureVax e l’americano Johnson&Johnson”.

L’idea di una sola dose?
“Gli inglesi hanno fatto un ragionamento semplice: la protezione del 50% conferita da una sola dose di Pfeizer è stata valutata al decimo giorno postvaccinazione; la protezione valutata a maggior distanza di tempo dalla prima dose aumenta però a più del 70%. Non è il 95% ottenibile col richiamo, ma è più del 60% dell’anti-influenzale. Non dico sia l’approccio da seguire, che è quello indicato dagli studi clinici approvativi e dagli enti regolatori, ma è un ragionamento da tenere in considerazione nel caso le dosi scarseggiassero ancora”.

L’Italia a colori funziona?
“Se ci guardiamo attorno, in Europa mi pare stiano tutti peggio di noi. Quindi la scelta delle zone sembra efficace. Un problema importante è quello del trasporto pubblico”.

Una risposta al Covid-19 sono le cellule monoclonali. Anche su questo siamo in ritardo.
L’Aifa ha promosso un progetto di ricerca su monoclonali validati e disponibili. Sarà importante utilizzarli presto all’insorgere della malattia, anche in combinazione tra loro, in quanto offrono ottime prospettive di risposta clinica e virologica, come conferma uno studio su Jama appena pubblicato. Il Covid è un’emergenza di sanità pubblica più che assistenziale. Si vince curando i malati il più possibile a casa, non passando dal pronto soccorso. Il ruolo dei medici di base deve essere potenziato sia dal punto di vista diagnostico che di linee guida di terapia continuamente aggiornate”.

Redazione Nurse Times

Fonte: il Fatto Quotidiano

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