Gli arrivi incessanti dei pazienti stanno mettendo a dura prova la resistenza del personale sanitario.
L’ospedale Cotugno di Napoli è assediato, giorno e notte. Se la Campania regge l’onda d’urto di un virus che porta in ospedale una media di 50 malati al giorno (sulle migliaia di positivi registrati al tampone ogni 24 ore), lo si deve a questo nosocomio di frontiera, che tratta solo malattie infettive. Sono oltre 300 i malati ricoverati, almeno una sessantina oltre la capienza massima, che ormai deborda in un’intera ala del vicino ospedale Monaldi.
Le auto e le ambulanze, le vedi arrivare da lontano, formando una lunga coda. Un infermiere con un carrello e l’ossigeno gira tra i mezzi. La bombola, l’anziano signore che è riverso in macchina, se l’è portata da casa, sistemata nell’incastro dell’abitacolo. L’ossimetro al dito segna 90, troppo basso per attendere. Arrivano gli inservienti e con una barella lo trasportano dentro. Nel Pronto soccorso possono entrare solo i pazienti. Uno sguardo per salutarsi e via. Dietro i vetri, sagome bianche armeggiano per gli accessi venosi. Si deciderà se il malato deve essere assistito in Semintensiva, e con una maschera a ossigeno, o intubato. L’idea di dover essere sedato in coma farmacologico per immettere direttamente nei polmoni l’ossigeno che serve per respirare terrorizzerebbe chiunque.
Le storie dei contagi? Dicono poco e tutto. I racconti frammentati ma sempre uguali: amici, parenti, cene, la palestra, i nipoti asintomatici, i figli che l’hanno preso al lavoro e poi trasmesso ai vecchi di casa. Due anestesisti fanno i turni giorno e notte in Pronto soccorso, affiancando gli infettivologi. L’incubo è riuscire a trovare un posto letto. Sono centellinati, ovunque. Eppure gli spazi, al Cotugno, sono enormi. Sono 240 i letti nelle stanze del vecchio plesso e altri 60 nel nuovo corpo G, che, iniziato negli anni Novanta, doveva servire per la cura dei malati di Aids. Terminato da un anno, ospita tutti in letti a pressione negativa e un reparto di Terapia intensiva che raddoppia la storica unità del vecchio plesso.
«I malati sono centinaia e hanno tutti la stessa patologia: polmonite e insufficienza respiratoria», dice Carolina Rescigno, clinico esperto, che ha visto passare in quei letti la Suina, l’Aids, le meningiti, la tubercolosi e oggi il Covid. Non è facile dare un volto ai malati. È un momento difficile per tutti. I posti si liberano piano piano, mentre gli arrivi sono continui. «I pazienti sono lì, lontani, nei letti – continua la dottoressa –. Li curiamo, sono tanti. Tutti in ossigenoterapia. Non si vede la via di uscita. In primavera, con il lockdown, sapevamo che sarebbe finita in estate. Ora sappiamo che ci aspetta un lungo inverno».
Gli arrivi incessanti hanno piegato il morale di Giuseppe, medico del Cardarelli, da mesi in prima linea. Anche qui le auto e le ambulanze sono in fila al Pronto soccorso, mentre sfila un enorme camion pieno di bombole di ossigeno: «Siamo stremati. Non si immagina l’angoscia che si prova a ogni ambulanza o auto che arriva, perché non sai come accogliere i pazienti. Arrivano a valanga. Se non si abbassa la curva dei contagi, non ci sarà organizzazione che tenga».
Così in tutti pronto soccorso della città e anche in tutti gli ospedali grandi e piccoli delle altre province campane. Dall’ondata epidemica di Covid-19 si salvano, forse, solo il Sannio, il basso Cilento e alcune aree interne, dove la ruralità distanzia naturalmente le popolazioni. A Napoli e provincia, invece, negli ospedali è il caos.
«Vi prego, fate tutti un lockdown personale, privato, non dettato da norme, colori, ordinanze, ma da una scelta personale – dichiara all’Ansa il manager dell’azienda dei Colli, Maurizio di Mauro, tornato in servizio dopo una decina di giorni di quarantena (era risultato positivo-asintomatico) –. Attualmente ci sono 12 postazioni box nel Triage e due terapie intensive nel Pronto soccorso, proprio per cercare di alleviare la situazione. Stiamo lavorando per reperire ulteriori posti letto».
L’ospedale del Mare chiude il nostro viaggio. Anche qui la fila infinta tra ambulanze e macchine, la gente disperata, l’umanità dolente e i camici bianchi avviliti. Nessuno sa più cosa fare. Si tenta di spostare i malati nei reparti, ma ogni paziente non resta meno di dieci giorni. L’ambulanza, il medico, il malato che non respira, l’ossigeno. Passano i giorni e la scena è sempre uguale. Così le ambulanze diventano un luogo di cura sicuro in attesa di una sistemazione migliore. E c’è chi poi arriva con ictus e infarto. Bisogna seguire e assistere tutti.
La Campania è allo stremo. Il contagio è ovunque. Ormai tutti, in famiglia o tra gli amici, hanno almeno un malato. C’è a chi va bene e a chi va peggio. Se non cala la curva dei contagi, non c’è sistema o organizzazione che tanga.
Redazione Nurse Times
Fonte: Il Mattino
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