Riceviamo e volentieri pubblichiamo una nota della collega Martina Pasotti, che lavora agli Spedali Civili di Brescia, in Chirurgia Vascolare, ed è attualmente assegnata a un reparto Covid.
Quante cose vorrei dire, non è facile trasmettere tramite una foto o per iscritto tutte, anzi mi correggo, anche solo in parte, le sensazioni che provo, che stiamo provando ogni giorno. Perché noi “al di qua” di queste solide, ma fragili mura, noi dietro a questa mascherina che ci dà tanta forza e protezione, e ci aiuta a non far trasparire i nostri pensieri, stiamo provando un tumulto di emozioni.
Vi assicuro che non è facile spiegare la rabbia, l’ingiustizia, l’impotenza e il senso di abbandono che a volte subiamo, sopportiamo e proviamo. Non è facile spiegare che cosa si nasconde dietro la parola “coronavirus” o “COVID-19”, la cui etimologia sembra quasi richiamare qualcosa di regale. Ma questo, di nobile, ha ben poco. Si è mostrato fin da subito audace, ma miserevole e ineluttabile. È un qualcosa che suscita paura, a me fa paura, a noi fa paura. Sì, perché indossare ogni giorno un camice con titolo da infermiere, da medico o da operatore sanitario che sia, non ci rende esenti dal provare paura. Per il ruolo che rivestiamo, siamo solo più abili a gestirla, a volte la soffochiamo in silenzio.
Non è facile spiegare cosa comunichino ogni giorno gli occhi delle persone che assistiamo e vediamo portare con fatica questo fardello. Preciso che “Covid” ora è protagonista, ma ogni giorno, a ogni ora, anche adesso, ci sono milioni di fardelli co-protagonisti, che vengono portati da altrettante persone che lottano per sorridere alla vita. Non è facile spiegare cosa ci sia dietro un “grazie” sussurrato da una mascherina che si appanna e che maschera (scusate il gioco di parole) per il forte rumore dell’ossigeno che bolle, la voce flebile di chi ha poco fiato, di chi ha deciso in quel momento di usarne un poco proprio per te. Sembra quasi gridarlo, davvero, quasi voglia “sdebitarsi”.
A volte è difficile spiegare anche l’importanza che ha lo stare in silenzio. Non è facile spiegare come in questa bolgia si possa parlare di soddisfazione personale e professionale, di senso di appartenenza, di amore e di gioia. Non è facile raccontare come in corsia si riesca anche a ridere e far sorridere. Non è facile trasmettere con le parole il potere di un sorriso, una pacca sulla spalla, uno sguardo compiaciuto, un abbraccio (solo virtuale, ovviamente, rispettiamo il metro di distanza), la voce familiare che rimbomba in una chiamata/videochiamata di mamma e papà, di un nonno, di amici, del proprio compagno/a, marito/moglie, l’affetto e la carica che riceviamo ogni giorno da tutti voi nei più svariati modi.
Chi mi conosce sa che sono una persona positiva e cerco nel mio piccolo di trasmetterlo agli altri. E credo che questo incubo, prima o poi (più prima che poi), avrà una fine, vedremo la luce in fondo al tunnel anche se ora sembra ci sia solo nebbia. Credo nel senso civico delle persone (anche se è stato necessario attuare misure estreme affinché la distorta percezione del rischio per qualcuno diventasse reale) e nel sacrificio che è stato richiesto, al di là del ruolo lavorativo, a ognuno di noi.
Credo che “Covid” stia avendo un rilevante impatto psico-sociale, economico oltre che umanitario. E’ una vera battaglia contro il tempo: le armi non sono termobalistiche, ma sono le persone, la speranza, l’empowerment, il buon senso, i farmaci, i DPI, i professionisti con la loro formazione e professionalità, la responsabilità, la ricerca. Penso che come tale passerà alla storia.
Vivere una pandemia nel XXI secolo? Chi l’avrebbe mai detto?! Dalla storia si deve imparare e, come disse il buon Manzoni, “Non sempre ciò che viene dopo è progresso”. Continuiamo a lottare insieme, ognuno con le proprie competenze e possibilità. Impariamo ad apprezzare il ruolo del personale paramedico e medico. Non solo oggi, ma anche domani. #ANDRATUTTOBENE.
Martina Pasotti
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