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Coronavirus, gli anticorpi durano almeno 8 mesi dopo la diagnosi

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Coronavirus, gli anticorpi durano almeno 8 mesi dopo la diagnosi
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Questo il risultato di uno studio condotto dai ricercatori del San Raffaele.

Gli anticorpi neutralizzanti contro SARS-CoV-2 persistono nei pazienti fino ad almeno otto mesi dopo la diagnosi di Covid-19, indipendentemente dalla gravità della malattia, dall’età dei pazienti o dalla presenza di altre patologie. Non solo, la loro presenza precoce è fondamentale per combattere l’infezione con successo: chi non riesce a produrli entro i primi 15 giorni dal contagio è a maggior rischio di sviluppare forme gravi di coronavirus.

Sono questi i due risultati principali di una ricerca condotta dall’Unità di Evoluzione e trasmissione virale dell’IRCCS Ospedale San Raffaele, diretta da Gabriella Scarlatti, in collaborazione con i ricercatori del San Raffaele Diabetes Research Institute, diretto da Lorenzo Piemonti, che hanno sviluppato un particolare test per gli anticorpi, sfruttando le competenze e le tecniche già impiegate per lo studio degli anticorpi coinvolti nella risposta auto-immunitaria alla base del diabete di tipo 1.

I ricercatori del Centro per la Salute Globale e del Dipartimento di Malattie Infettive dell’Istituto Superiore di Sanità (Iss), coordinati da Andrea Cara e Donatella Negri, sfruttando le competenze e le tecniche già impiegate per lo studio dei vaccini anti-Hiv, hanno lavorato a stretto contatto con il gruppo di Gabriella Scarlatti per sviluppare un nuovo metodo per la valutazione degli anticorpi neutralizzanti contro SARS-CoV-2.

Lo studio, pubblicato su Nature Communications, “mappa in modo esaustivo l’evoluzione nel tempo della risposta anticorpale al Covid-19 – fanno sapere i ricercatori – e fornisce importanti indicazioni sia per la gestione clinica della malattia, attraverso il riconoscimento dei pazienti a maggior rischio di forme gravi, sia per il contenimento epidemiologico della pandemia”.

Lo studio è stato condotto seguendo nel tempo 162 pazienti positivi a SARS-CoV-2, con sintomi di entità variabile, che si sono presentati al pronto soccorso dell’Ospedale San Raffaele durante la prima ondata della pandemia in Italia. I primi campioni di sangue sono stati raccolti al momento della diagnosi e risalgono a marzo-aprile 2020, gli ultimi a fine novembre 2020. Il gruppo di pazienti è composto al 67% da maschi, con un età media di 63 anni. Il 57% soffriva di una seconda patologia oltre al Covid-19 al momento della diagnosi, l’ipertensione (44%) e il diabete (24%) le più frequenti.

Su 162 pazienti, 134 sono stati ricoverati. Oltre agli anticorpi specifici e neutralizzanti contro SARS-CoV-2, i ricercatori hanno indagato nei pazienti anche la riattivazione degli anticorpi per i coronavirus stagionali (quelli responsabili del classico raffreddore) con l’obiettivo di verificare il loro impatto sulla risposta contro SARS-CoV-2.

“Questi anticorpi riconoscono parzialmente il nuovo coronavirus e possono riattivarsi a seguito del contagio, pur non essendo efficaci nel neutralizzarlo – spiega Gabriella Scarlatti, che ha coordinato la ricerca –. Il timore era che la loro espansione potesse rallentare la produzione degli anticorpi neutralizzanti specifici per SARS-CoV-2, con effetti negativi sul decorso dell’infezione”.

“Questo lavoro rappresenta un entusiasmante sforzo di collaborazione – sottolineano Andrea Cara e Donatella Negri –, che unisce il nostro interesse nella valutazione della risposta immunitaria contro diversi agenti infettivi con l’esperienza all’interno delle nostre istituzioni, focalizzata sullo sviluppo di metodi immunologici innovativi, efficaci e capaci di dare risposte in tempi rapidi”.

Contrariamente a quanto emerso da studi precedenti, la presenza precoce di anticorpi neutralizzanti contro SARS-CoV-2 è effettivamente correlata a un migliore controllo del virus e a una maggiore sopravvivenza dei pazienti. “Per fortuna – spiegano i ricercatori – questo è vero nella maggior parte dei casi: il 79% dei pazienti arruolati ha infatti prodotto con successo questi anticorpi entro le prime due settimane dall’inizio dei sintomi. Chi non ci è riuscito è risultato a maggior rischio per le forme gravi della malattia, indipendentemente da altri fattori come l’età o lo stato di salute”.

Allo stesso tempo la presenza degli anticorpi neutralizzanti, pur riducendosi nel tempo, è risultata molto persistente: a otto mesi dalla diagnosi erano solo tre i pazienti che non mostravano più positività al test. La persistenza di questi anticorpi per almeno otto mesi è indipendente dall’età dei pazienti o dalla presenza di altre patologie. Infine, secondo i dati analizzati dai ricercatori del San Raffaele, la riattivazione di anticorpi pre-esistenti per i coronavirus stagionali non ha alcuna influenza nel ritardare la produzione degli anticorpi specifici per SARS-CoV-2 e non è associata a maggior rischio di decorsi gravi del Covid-19.

“Lo studio della risposta anticorpale contro SARS-CoV-2 – spiega Vito Lampasona, del Diabetes Research Institute – rivela la complessità dell’interazione tra il virus e il sistema immunitario, uno degli elementi che determina la diversa gravità con cui la malattia si manifesta nel singolo paziente”.

Fa sapere ancora Gabriella Scarlatti: “Quanto abbiamo scoperto ha delle implicazioni sia nella gestione clinica della malattia nel singolo paziente, sia nel contenimento della pandemia. Secondo i nostri risultati, infatti, i pazienti incapaci di produrre anticorpi neutralizzanti entro la prima settimana dall’infezione andrebbero identificati e trattati precocemente, in quanto ad alto rischio di sviluppare forme gravi di malattia. Gli stessi risultati ci danno però anche due buone notizie: la prima è che la protezione immunitaria conferita dall’infezione persiste a lungo; la seconda è che la presenza di una pre-esistente memoria anticorpale per i coronavirus stagionali non costituisce un ostacolo alla produzione di anticorpi contro SARS-CoV-2”.

Il prossimo step è ora capire se queste risposte efficaci sono mantenute anche con la vaccinazione e soprattutto contro le nuove varianti circolanti. Cosa che “stiamo già studiando in collaborazione con i colleghi del Iss”, concludono i ricercatori. Lo studio è stato possibile grazie al finanziamento interno del Program Project COVID-19 OSR-UniSR, attivato grazie ai fondi 5 per mille Ospedale San Raffaele e del ministero della Salute (COVID-2020-12371617).

Redazione Nurse Times

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