Ecco come riapriranno studi medici, pronto soccorso, sale operatorie e dentisti.
Gli italiani adesso hanno bisogno di essere curati anche per patologie diverse dal Covid-19. È questa la fase 2 del Servizio sanitario: tornare ad occuparsi di tutte quelle patologie che in queste settimane sono state costrette ad aspettare.
Se gli ospedali si sono impegnati per non chiudere le sale operatorie a tumori e altre patologie gravi, oltre che alle urgenze, se certe attrezzature diagnostiche hanno proseguito il lavoro per gli approfondimenti necessari, ci sono decine di migliaia di prestazioni – visite specialistiche, esami, e operazioni programmate – che sono state rinviate. In certi casi, come dimostrano i pronto soccorso ormai svuotati, sono stati gli stessi pazienti a non presentarsi o a chiedere il rinvio per paura del contagio, in altri sono state le strutture a chiedere di aspettare. E così in tutte le Regioni si lavora per ripartire.
La chiave, indicata anche dal ministero della Salute, è la separazione tra il percorso “sporco”, cioè dedicato al Covid, e quello “pulito”, da tenere al più possibile riparato dall’infezione. Bisogna fare in modo che le persone colpite dal coronavirus vengano intercettate già sul territorio, cioè al loro domicilio, e indirizzate alle strutture dedicate. Il resto di ospedali, ambulatori e presidi di vario tipo, deve occuparsi di tumori, malattie croniche, urgenze, traumi, approfondimenti di sospetti diagnostici e tutto il resto. Ecco cosa succederà in vari settori del servizio sanitario pubblico e anche del privato gradualmente da maggio in poi.
Ospedali Covid e altri – Il ministro Roberto Speranza ha messo questo punto tra i cinque necessari per la fase 2 sanitaria: le Regioni devono creare o mantenere ospedali Covid. Strutture intere, che siano padiglioni di policlinici o monoblocchi, dove continuare a seguire i pazienti colpiti dal coronavirus quando i casi si saranno ridotti e bisognerà intercettare rapidamente quelli sporadici per isolarli, rintracciare i loro contatti e appunto curarli. In questo momento sono 90 gli ospedali attrezzati per curare il Covid-19 nelle varie regioni. Buona parte probabilmente saranno mantenuti. L’idea è quella di inviare i pazienti in queste strutture, che avranno anche letti di rianimazione, direttamente dal territorio. Una rete costituita da medici di famiglia, dipartimenti di prevenzione e Usca (le unità composte da medico e infermiere nate proprio durante la pandemia) dovrà fare i tamponi a tutti coloro che hanno sintomi e in caso di positività e condizioni di salute cattive far scattare il trasferimento all’ospedale Covid più vicino.
Negli ospedali dedicati agli altri pazienti si lavorerà al massimo per spalmare le varie attività nel corso di tutta la giornata, dai prelievi alle visite, dagli interventi agli esami radiologici. Il principio è quello di non far circolare troppe persone all’interno degli ospedali. I visitatori non potranno entrare, salvo casi eccezionali, a visitare i ricoverati. Se lo faranno dovranno indossare la mascherina e avranno a disposizione gel igienizzanti. Molte strutture misureranno la febbre con il termoscanner all’entrata. Riguardo a chi si deve ricoverare, si ipotizzano tamponi e test sierologici prima dell’accettazione per individuare eventuali casi di contagio.
Pronto soccorso con percorsi seperati – Sono tra le strutture grazie alle quali si può meglio misurare il calo del lavoro provocato dal coronavirus. Dopo il lockdown di marzo e ad aprile in certe regioni si è visto il lavoro ridursi al 25-30% rispetto a gennaio o allo stesso periodo del 2019. Un esempio? In Veneto gli accessi al pronto soccorso all’inizio dell’anno erano oltre 5.200, nei giorni della pandemia sono scesi anche a 1.200, 1.500, 1.700. Dai pronto soccorso spiegano che si è cancellata l’inappropriatezza, cioè le richieste di prestazioni inutili, molto diffuse in queste strutture vista la grande quantità di codici bianchi, azzurri o verdi, cioè i meno gravi, che si affrontano ogni giorno. Tra chi non si è presentato ci sono però stati anche pazienti che avevano problemi seri, come ictus e infarti. Magari per paura del virus hanno ritardato le cure, con effetti gravissimi sulla loro salute. Gli stessi cardiologi hanno lanciato l’allarme.
“Nella fase 2 si dovrà porre grande attenzione”, dice Salvatore Manca, presidente nazionale di Simeu, la società scientifica dell’emergenza. “Le strutture di emergenza urgenza continueranno ad applicare rigorosamente la separazione dei percorsi, si dovrà continuare col pretriage, per garantire in tutte le fasi del percorso del paziente la massima sicurezza, i pazienti che necessitano di prestazioni urgenti riceveranno come sempre la risposta più appropriata nella massima sicurezza”.
Per la riapertura, dunque, è necessario che si continuino a distinguere all’interno dei pronto soccorso i percorsi per i sospetti casi di Covid, che comunque continueranno ad arrivare, dagli altri. Ci sono regioni che hanno intenzione di fare il test per verificare se una persona è positiva già alla porta di servizi di urgenza. I pazienti se è possibile dovranno comunque arrivare da soli, cioè senza accompagnatori proprio per non affollare le sale d’attesa, un principio che vale su tutti gli ospedali.
Visite ed esami a tutte le ore – Visite ed esami nel servizio pubblico si faranno a tutti gli orari, anche quelli meno canonici, come il pomeriggio oppure nel week-end. E’ l’dea di molte regioni, come la Toscana, che stanno organizzando i servizi in vista della ripresa. Non potrà essere tutto come prima. Il Veneto spiega che chiederà ai medici che fanno le visite la massima puntualità perché i ritardi riempiono di pazienti le sale d’attesa, che comunque verranno ampliate.
Anche gli specialisti potranno usare la telemedicina in certi casi, per controllare i pazienti a distanza, magari insieme ai medici di famiglia. L’invito ai cittadini resta quello di presentarsi solo se si ha davvero necessità. Riguardo agli esami, si lavorerà per l’igienizzazione di tutta la strumentazione dopo ogni accertamento, cosa che potrebbe allungare un po’ i tempi per chi aspetta. Si prevede che la domanda per visite ed esami, fino ad oggi compressa, torni a esplodere quando l’epidemia avrà rallentato con decisione. Per questo il Veneto pensa di ricontrollare tutte le richieste di chi non è stato visto in questo periodo per riscrivere le priorità e fissare così nuovi appuntamenti.
Accelerazione della chirurgia – Nemmeno per gli interventi chirurgici, probabilmente, i pazienti potranno avere accanto i parenti. “Operarsi, resterà un’attività che richiede attenzione, ma ci stiamo attrezzando per eliminare le fonti di rischio. Chi ne ha bisogno, potrà farlo in sicurezza”, dice Paolo De Paolis, presidente della Società Italiana di Chirurgia e direttore della chirurgia d’urgenza alle Molinette di Torino. Attualmente gli interventi sono ridotti a un terzo: le vere emergenze. “E quando riapriremo, avremo un grosso arretrato, oltre ai pazienti nuovi. Dovremo probabilmente effettuare il 30% di operazioni in più. Il tutto con una categoria di anestesisti e rianimatori ancora non del tutto liberi dall’impegno contro il Covid”.
Utile, per fare chirurgia in sicurezza, sarebbe sottoporre a tampone tutti i malati prima dell’ingresso in sala operatoria. “Ma sappiamo che sarà difficile ottenerlo e che anche i tamponi hanno una percentuale di errore, con alcuni falsi negativi. Già ora la situazione è a macchia di leopardo: per alcuni pazienti è previsto il test, per altri no. Per i casi dubbi, abbiamo bisogno di dispositivi di protezione a prova di coronavirus”. Tuta, maschera filtrante, visiera, doppi guanti. E in più sale operatorie a pressione negativa, per trattenere all’interno l’aria potenzialmente contaminata e sterilizzarla. “Di sale operatorie simili ne abbiamo, soprattutto negli ospedali più grandi. Ma stiamo lavorando per aumentarle. Tutta la diagnostica prima e tutta la convalescenza dopo dovranno essere effettuati in sicurezza. Il più possibile gli ospedali Covid resteranno distinti da quelli non Covid. E nelle camere serviranno letti più distanziati. Purtroppo, consentire le visite dei parenti vorrebbe dire correre un rischio in più. E in questa situazione non possiamo proprio permettercelo”.
Telemedicina e ricette elettroniche – Con i 235 milioni di euro stanziati dal governo per la telemedicina, gli studi dei medici di famiglia stanno affrontando una rivoluzione copernicana. Già in poche settimane hanno capovolto il loro modo di lavorare. In futuro, ancor di più, le visite in studio diventeranno un’eccezione. Le ricette resteranno elettroniche. Dove possibile, il medico vedrà il paziente attraverso uno schermo: tablet o telefonino. Anche alcuni esami diagnostici come ecografie ed elettrocardiogrammi viaggeranno a distanza. “Le visite in studio saranno precedute da una telefonata, in cui si valutano i sintomi e si fissa un appuntamento, in modo da evitare file in sala d’aspetto”, spiega Silvestro Scotti, che lavora a Napoli ed è segretario nazionale della Fimmg, la Federazione dei medici di medicina generale. Ovviamente, almeno in autunno tossi e febbri torneranno all’ordine del giorno. “In quel caso predisporremo una visita domiciliare, o da parte di un medico di famiglia o delle unità speciali di continuità assistenziale che si stanno rafforzando in queste settimane”.
A domicilio potranno essere effettuate misurazioni dell’ossigenazione del sangue, con un pulsossimetro, e perfino elettrocardiogrammi. “Ne esistono alcuni che possono essere eseguiti dal paziente mentre io resto fuori dalla porta”, spiega Scotti. “L’elettrocardiogramma potrà poi essere inviato allo specialista attraverso un consulto a distanza, per evitare una visita ulteriore”. Ma laddove lo schermo di un telefonino non dovesse bastare, e medico e paziente si dovessero incontrare, sia a casa che in studio, “tratteremmo tutti come potenziali infetti” spiega Scotti. Con mascherine filtranti, occhiali o visiere e, in studio, sanificazione tra una visita e l’altra. Ammesso che troviamo dispositivi di protezione sufficienti per tutti”, precisa il medico.
Protezioni dal dentista – “Tutto bene? Ha tosse o febbre? Se non ha sintomi, l’appuntamento è confermato”. Il dentista telefonerà a casa il giorno prima della visita. Se non ci sono segnali di allarme, lo riceverà in studio, possibilmente senza accompagnatori. “Stiamo ancora lavorando alle nostre linee guida, non abbiamo definito tutti i dettagli. Ma siamo abituati a gestire il rischio di infezioni, e ci riusciremo anche con il coronavirus”, conferma Carlo Ghirlanda, presidente dell’Andi, Associazione nazionale dentisti italiani. I dentisti, in realtà, non si sono mai fermati. “Abbiamo gestito molti casi per telefono, con i farmaci. Ma un 10% di attività per le urgenze è rimasta garantita”.
Mascherine per i pazienti e distanza in sala d’aspetto. Maschere filtranti e visiere per i dentisti. “Noi non possiamo restare a un metro dal paziente. Siamo a contatto con sangue e saliva. E alcune procedure creano aerosol. Per noi il rischio di infezione da coronavirus, come per Hiv, epatiti o altri microbi, è da prendere particolarmente sul serio”. Le pellicole monouso incollate a poltrone e strumenti già da oggi vengono rimosse da un paziente all’altro. “Già usiamo le cosiddette dighe di gomma, che lasciano esposto solo il dente su cui lavorare. Quel che dovremo potenziare sarà la decontaminazione e l’aerazione degli ambienti dopo ogni visita”, spiega Ghirlanda. Il tempo necessario per queste operazioni, e il fatto che in sala d’aspetto non potranno crearsi code, “farà sì che gli appuntamenti in futuro saranno diradati di molto, rispetto a ieri”.
Redazione Nurse Times
Fonte: la Repubblica
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