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Coronavirus e sieroterapia: i chiarimenti di Roberto Burioni

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Coronavirus e sieroterapia: i chiarimenti di Roberto Burioni
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Rilanciamo un articolo del noto virologo, pubblicato sul portale Medical Facts.

Siamo stati aggrediti da un virus completamente nuovo e ci siamo trovati di colpo di fronte a una malattia infettiva grave e contagiosissima. Per questo siamo stati costretti a reagire con le armi più antiche che possono sembrare grossolane, ma che non mancano talvolta di efficacia.

La prima nostra reazione è stata riscoprire una misura del 1347. La quarantena. “Quarantena” è la parola veneziana che sta per “quarantina”, appunto quaranta giorni. Si è imposto il termine dialettale perché fu la Repubblica di Venezia la prima a emanare un regolamento sanitario che imponeva alle navi in arrivo nel porto di trascorrere un periodo di quaranta giorni di osservazione prima di entrare nella laguna. Abbiamo declinato questo provvedimento in termini moderni, stando tutti chiusi in casa, e ha funzionato. L’epidemia, che avrebbe potuto esplodere e causare innumerevoli morti, è stata contenuta e ora possiamo affrontare – con le dovute cautele – la ripartenza.

La sieroterapia – Era la notte di Natale del 1891, quasi 130 anni fa, e una bambina stava morendo di difterite in una famosa clinica chirurgica di Berlino. Era ricoverata in un reparto chirurgico anche se era afflitta da una terribile malattia infettiva, perché la difterite uccideva i bambini anche chiudendogli la gola e impedendogli di respirare: l’unico modo era praticare un foro nella trachea per garantirgli qualche possibilità in più di sopravvivenza. La bambina stava malissimo, e non avrebbe probabilmente passato la notte. Ma Emil Von Behring gli somministrò un siero che conteneva anticorpi contro la difterite (in particolare contro la sua tossina) e incredibilmente la bambina la mattina dopo non solo non era morta, ma stava decisamente meglio.

Da allora prese il via la sieroterapia, ovvero il somministrare ai malati un siero proveniente da una persona iperimmune (tipicamente un soggetto guarito dalla infezione), per sortirne un effetto benefico. La procedura ha avuto un grandissimo successo in alcune malattie, per alcune delle quali è una strategia ancora usata (profilassi di tetano, rabbia, epatite A ed epatite B), purtroppo in altri casi si è rivelato inutile (Hiv ed epatite C, per esempio). Un recente studio, riportato qui sotto, ha dimostrato che questo approccio non porta risultati positivi anche nel caso dell’influenza.

In questo momento disperato si sta tentando di percorrere questa strada anche per curare le persone colpite dal coronavirus: si prende il plasma (che è tutto quello che c’è nel sangue tolti globuli rossi, globuli bianchi e piastrine, quindi la parte liquida) di un individuo guarito, si verifica la presenza degli anticorpi e infine si somministra ai malati. I risultati preliminari di questa pratica sembrano incoraggianti, ma ancora riguardano un numero troppo esiguo di pazienti (5, 10 e 6) e soprattutto manca il fondamentale “braccio di controllo” (pazienti che dovrebbero ricevere il “placebo”, in questo caso il siero – o il plasma – di individui sani), e proprio per questo sono in corso studi in tutto il mondo che ci daranno una risposta chiara a questa domanda.

Lo studio dell’Università di Pavia – Uno di questi studi è quello al quale partecipa il mio amico e collega Fausto Baldanti dell’Università di Pavia. In questo caso è stata introdotta una variante: non vengono arruolati nella donazione del plasma tutti i pazienti, ma solo quelli che contengono un’alta quantità di anticorpi in grado di neutralizzare il virus, e in questo caso i risultati sembrano ancora più incoraggianti. Questa terapia è molto promettente, ma dobbiamo capirne bene i limiti.

Prima di tutto non pensate al plasma di un donatore come qualcosa di facile da preparare o di economico: è vero l’esatto contrario. Bisogna selezionare accuratamente i pazienti (ci vuole tempo e denaro), bisogna preparare il plasma, bisogna sincerarsi che il plasma non trasmetta altre malattie infettive (tutto quello che viene dal sangue è rischioso), bisogna valutare la quantità di anticorpi neutralizzanti il virus e anche escludere la presenza di anticorpi che possano danneggiare le cellule del paziente che riceverà la donazione. Inoltre, i diversi preparati sono difficili da standardizzare: in altre parole il contenuto di anticorpi sarà diverso da una preparazione all’altra e questo diminuirà in alcuni casi l’efficacia (somministriamo la stessa quantità di plasma, ma una diversa quantità di “principio attivo”).

Però, soprattutto l’elemento limitante è il numero dei donatori: solo chi è guarito può donare il sangue e quindi le quantità disponibili sono per ovvi motivi (non possiamo dissanguare le persone) estremamente limitate. In generale, due guariti riescono a curare un malato, ma anche con una proporzione uno a uno voi capite che non si va molto lontano. Inoltre, non è una pratica priva di controindicazioni: oltre alla presenza di anticorpi “dannosi” di cui abbiamo parlato prima, le somministrazioni di plasma possono alterare i processi della coagulazione. In un paziente Covid-19 dove questa funzione appare disturbata, bisogna avere particolare cautela.

Il siero artificiale – Nonostante ciò, se questa pratica funzionasse sarebbe una cosa fantastica: in primo luogo perché, pur con tutti i costi e le difficoltà, avremmo il primo rimedio specifico contro questa malattia; in secondo luogo perché se funzionasse si aprirebbero le porte a uno sviluppo interessantissimo. Se ci sono anticorpi che, somministrati, proteggono dalla malattia noi non abbiamo solo la possibilità di prenderli da pazienti che li hanno prodotti: la tecnologia moderna ci consente di isolarne i geni e produrne in laboratorio una quantità illimitata, grazie al clonaggio di anticorpi monoclonali umani (dei quali chi scrive si occupa da 35 anni, avendo su questo argomento incentrato la propria tesi di laurea svolta all’Università della Pennsylvania nei lontani anni ’80 e la sua seguente produzione scientifica).

A questo punto avremmo un “siero artificiale” che contiene una quantità esatta e sempre identica di anticorpi efficaci, non conterrebbe nessun “anticorpo pericoloso”, non andrebbe a interferire nei processi coagulativi del paziente e – soprattutto – potrebbe essere prodotto in maniera illimitata e a costi molto inferiori rispetto a quelli che sono necessari per la produzione del plasma.

Il problema è che per produrre e sperimentare il “siero artificiale ci vuole tempo, tempo durante il quale avere una terapia efficace – pur con tutti i limiti descritti – sarebbe importantissimo. Per questo incrociamo le dita e speriamo che il plasma dei guariti funzioni, perché sarebbe un primo importante passo verso la vittoria contro questa malattia che, ricordiamolo, raggiungeremo solo quando avremo una cura efficace, un siero artificiale o un vaccino.

Insomma, l’utilizzo dei plasma dei guariti è una pratica scientificamente valida, che può funzionare (bisogna provarlo), che pur con tutti i rischi e i limiti speriamo di potere utilizzare presto. Per capire se questo è possibile ci vogliono studi seri e controllati (che sono in corso), e non serve a niente il tifo da stadio o i dibattiti su chi ha inventato la procedura, perché si sa benissimo chi l’ha inventata: Emil Von Behring, che per questa invenzione ha conseguito il premio Nobel per la medicina nel 1901.

Redazione Nurse Times

Fonte: Medical Facts

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