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Massimo Randolfi

Competenze specialistiche e passaggio da collegio ad ordine: due condizioni necessarie ma NON sufficienti

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Competenze specialistiche e passaggio da collegio ad ordine: due condizioni necessarie ma NON sufficienti
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Due novità presto si aggiungeranno al nostro percorso di evoluzione professionale: il passaggio da collegio ad ordine e la proposta dell’ ARAN per il rinnovo del contratti con il riconoscimento delle competenze specialistiche (VEDI)

Queste due novità stanno generando un mix di esaltazione e sconforto tra polemiche e stupore positivo.

Con un approccio più razionale vediamo di comprenderne l’impatto su una realtà professionale bisognosa di cambiamento.

Intanto, perché è necessario il cambiamento?

Il mondo cambia, i bisogni di salute mutano rapidamente, la vita media si allunga grazie alle nuove terapie messe a disposizione dal progresso scientifico, aumentano le pluripatologie e nell’assistenza al paziente del futuro bisognerà fare i conti con equilibri omeostatici sempre più compromessi, la tecnologia a disposizione della diagnostica ci mette a disposizione macchinari sempre più avanzati.

Ecco noi siamo davanti ad un bivio: da un lato l’insegna del “si è sempre fatto così” ma questa strada alla lunga porterà allo scontro tra la nuova domanda e la vecchia risposta di salute; dall’altra l’insegna che ci invita a metterci al passo di questo cambiamento per adattare la nostra risposta alla nuova domanda di cura e assistenza.

In questo contesto, il rinnovo dei contratti con il riconoscimento delle competenze specialistiche e il passaggio da collegio ad ordine sono due condizioni necessarie ma non sufficienti per una riorganizzazione del lavoro in sanità.

È necessaria una cornice contrattuale entro cui inscrivere tutte le competenze specialistiche assunte finora dagli infermieri italiani con conseguente riconoscimento economico (ancora da quantificare) così come è necessario il passaggio da collegio ad ordine come “ciliegina sulla torta”, una torta già completata 11 anni fa con la L. 43/2006; occorre ricordare altresì che questo non è solo un passaggio formale ma sostanziale in quanto cambiano le modalità di voto del consiglio direttivo.

Tuttavia queste novità non sono sufficienti a cambiare un sistema invariante da decenni, come una riverniciatura ad una carrozzeria decrepita non sarà sufficiente ad innovarla.

La riorganizzazione del lavoro in sanità non basta teorizzarla e trascriverla su carta: cosa è cambiato nella pratica clinica dopo l’ emanazione del profilo professionale e della L. 42/99?

Cosa è cambiato dopo la L. 251/00 che ci obbliga ad adottare la pianificazione assistenziale per obiettivi?

Al netto delle realtà virtuose che seppur a macchia di leopardo nel nostro paese esistono, possiamo rispondere con un secco “niente” perchè abbiamo considerato queste normative come una conquista su cui ci siamo adagiati, un punto di arrivo e non un punto di partenza per un nuovo decorso.

Ora tocca a noi non ripetere lo stesso errore del passato, tocca a noi costruire un substrato culturale tale da accogliere le novità e tradurre nella prassi i cambiamenti teorizzati su carta.

Per una riorganizzazione del lavoro in sanità, dunque, è necessario un approccio analitico approfondito per scomporre i problemi che attraversano febbrilmente la scena del nostro presente, analizzare tutte le alternative possibili e scegliere la soluzione migliore.

Per fare ciò è necessario resettare la professione, fermarsi a riflettere su quello che siamo e che vogliamo diventare nel prossimo futuro.

Come nel processo di assistenza infermieristica si identificano prima gli obiettivi per poi pianificare gli interventi adeguati, anche in questo caso dobbiamo focalizzarci su un obiettivo, l’infermiere del futuro e poi mobilitare tutte le risorse disponibili per la costruzione di un ruolo in divenire. Utile in questo senso un progetto condiviso tra tutti gli organi di rappresentanza professionale che oggi lavorano in maniera scoordinata in mancanza di una vision per il futuro.

Il lavoro di squadra dunque non solo come risposta ai bisogni di salute del paziente del futuro ma anche come strategia per superare l’impasse in cui la professione infermieristica è piombata.

In questo senso bisogna che, in maniera sinergica:

  • i sindacati evidenzino il problema delle dotazioni organiche ridotte all’osso o in talune realtà addirittura assenti di personale di supporto;
  • i dirigenti promuovino modelli di organizzazione dell’assistenza in grado di valorizzare le competenze dell’infermiere;
  • i docenti universitari la smettano di insegnare pratiche domestico-alberghiere formando così professionisti già pronti ad essere demansionati,
  • l’ipasvi si adoperi, in maniera meno autoreferenziale, sia per recuperare il gap culturale nella professione, sia per pensare a nuove forme di cooperazione con medici ed oss basate sulla multidisciplinarietà e sul riconoscimento della propria interdipendenza (attenzione, non interscambiabilità!) in un ottica di coevoluzione.

In conclusione, urge fermare una deriva culturale e cominciare a costruire una controcultura basata su nuovi valori.

Se chiediamo un cambiamento culturale dobbiamo però cambiare prima di tutto noi, al nostro interno.

Dobbiamo sentirci meno impotenti davanti ad una realtà considerata immutabile; la realtà è ciò che è, e ciò che potrebbe essere. Se riusciamo a vedere la dimensione potenziale conservata nell’essere e dunque ad invertire il rapporto impotenza/potenza, a sentirci potenti, potremmo più facilmente ricondurre la dimensione dei nostri problemi quotidiani ad una visione d’insieme della nostra compromessa situazione generale.

Solo così potremo desiderare realmente quel cambiamento e solo così potremmo veicolarlo dalla teoria alla pratica.

 

Raffaele Varvara

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