Riceviamo e pubblichiamo la lettera di Elisa Mele, giovane infermiera di Nuoro con la passione per la fotografia. Laureata in Infermieristica nel novembre 2014 con 110 e lode all’Università degli studi di Cagliari, dall’ottobre del 2015 lavora nel dipartimento chirurgico del Centro oncologico di riferimento di Aviano (PN). La collega, presente in piazza a Roma il 23 febbraio, in occasione dello sciopero, ci tiene a sottolineare che non è iscritta ad alcun sindacato.
Buonasera, ministro Madia,
io so chi è Lei, almeno per “sentito dire”, ma forse Lei non sa chi sono io. Dal basso della mia presunzione, penso di potermi presentare con queste poche parole che dicono tutto di me: mi chiamo Elisa, ho 27 anni e sono un’infermiera precaria del Centro oncologico di riferimento di Aviano.
Mai, fino a ieri, avrei pensato di spendere mezz’ora del mio tempo, di rientro dal turno pomeridiano, per scriverLe. Sa, credo di manifestarle, a pieno titolo, la delusione della mia categoria dopo la firma del contratto di povertà e assurdità della sanità italiana. Ieri ero in piazza a Roma, dopo quasi dieci ore di viaggio in pullman dal Friuli. Mentre io stavo sotto l’acqua che batteva incessante, Lei, con altri discepoli al seguito, stava seduta intorno a un tavolo per decidere le sorti del nostro (mio) contratto. Ma questo, si sa, non ha influito sulle vostre decisioni.
Le dico la verità, ci ho sperato. Ho sperato che tutti quegli sguardi decisi accanto a me vi facessero virare verso altre proposte. Ci ho sperato quasi fino a crederci. E invece… Vi ho visto qualche ora dopo, mentre cercavo di consumare il mio pranzo e di asciugarmi dopo il diluvio, esultare. Vi ho visto rilasciare interviste, citando stati d’animo gioiosi per un accordo arrivato dopo “estenuanti 28 ore di contrattazione”. Ventotto ore definite “estenuanti”, lo ripeto.
A leggerla, centrando il focus sulla parola “estenuante”, potrei pensare a un turno notturno di un infermiere qualsiasi in un qualsiasi reparto. A un banalissimo turno mattutino con 45 posti letto e due infermieri. A un turno pomeridiano in un pronto soccorso, con pazienti costretti a ore di attesa perché la carenza di personale non riesce a garantire un numero sufficiente di ambulatori attivi.
Mi spiace comunicarLe che siamo noi a dover rispondere in prima persona del disservizio che purtroppo subiscono i pazienti, in maniera crescente col passare del tempo. Siamo noi a dover subire gli stati d’animo e le aggressioni, purtroppo non solo verbali, del paziente che è stanco di aspettare. Delle persone che stanno male e che, di aspettare, non se lo possono proprio permettere.
Volevo porLe una domanda: Lei lo sa cosa fa un infermiere? Lei sa qual è l’importanza che abbiamo nel garantire l’assistenza al paziente? Lei sa quanto noi infermieri possiamo fare la differenza sulla diagnosi, sulla cura e sulla prognosi? Lei sa quante responsabilità ci competono e a quanti rischi siamo esposti? Queste domande potrebbero sembrare provocatorie, ma il mio fine è un altro.
Sa, quando un infermiere rientra a casa non esulta. Non esulta perché il più delle volte, quello stesso lavoro, quei volti, quella sofferenza o quei sorrisi se li porti tutti a casa. Sedendoci intorno a un tavolo di contrattazione, dovremmo pensare anche a questo. Dovremmo pensarci quando, con una firma, si rende obbligatorio il lavoro straordinario.
“Salvo giustificati motivi di adempimento”: ci si deve pensare quando viene tolto il diritto alla pausa di 30 minuti per i turnisti; quando vengono dati 15 minuti per timbrare, raggiungere gli spogliatoi, cambiarci, tornare in reparto e prendere consegne; quando si attua una deroga alle 11 ore di riposo per esigenze dell’azienda (non del lavoratore); quando ci si vanta della lotta al precariato, dandole manforte con la pronta disponibilità estesa a tutti i reparti di degenza.
Non ho citato la parte economica perché credo che quella si commenti da se: un infermiere che ha l’obbligo di laurea e formazione continua riceverà lo stesso stipendio di un qualsiasi soggetto con diploma di scuola secondaria, senza responsabilità alcuna.
Mi spiace ministro. Mi spiace che ancora una volta la mia professione non venga riconosciuta intellettuale come si legge solo sui libri. Mi spiace dovermi ancora giustificare con i pazienti quando ci vedono stanchi e non trovano un sorriso. Perché, quel sorriso, ce lo state togliendo. Questo è estenuante. Io, purtroppo, non ci sto.
Infermiera
Elisa Mele
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