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‘Attimi di noi’. Storie di adolescenti con tumore: la testimonianza di CLAUDIA (1^ Parte)

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‘Attimi di noi’. Storie di adolescenti con tumore: la testimonianza di CLAUDIA (2^ Parte)
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Riprendiamo il nostro viaggio all’interno della raccolta “Attimi di noi” storie di adolescenti con tumore, supportati dall’associazione di volontariato ‘Adolescenti e cancro’, a cui il nostro giornale vuole dare ampia visibilità riprendendo ognuna delle 19 storie, presentate da giovani adolescenti, ragazzi che hanno deciso di far conoscere la storia della loro vita dal momento in cui hanno scoperto di avere un tumore. 

Che cosa vuol dire avere sedici, diciotto o vent’anni e sentirsi dire “hai il cancro”? Che ripercussioni può avere su un giovane, una diagnosi ricevuta da bambino?

Quella che vi proponiamo oggi è la storia di CLAUDIA.

Grazie Mamma…

Ho impiegato venti giorni prima di riuscire a iniziare a scrivere, non è mai facile parlare della propria vita, sale dentro una sensazione strana, un misto tra paura e ansia di dire parole sbagliate o di non essere compresa. Come ho fatto a iniziare a scrivere?

Nel mio metodo migliore, cuffie nelle orecchie, “Nuvole bianche” di Ludovico Einaudi ed eccomi qui; esistono melodie che le senti dentro già prima di ascoltarle, è la musica che è dentro il nostro cuore e ogni periodo della nostra vita ne ha una diversa.

La musica fa parte di ognuno di noi, fa parte di me. “Di te? Ma chi sei tu?”. Avete ragione, non vi ho ancora detto chi sono, non so bene da dove iniziare quindi partiamo dall’aspetto più semplice, io sono Claudia, ma tutti mi chiamano Carotina, sono nata ventuno anni fa in Sicilia, ma non illudetevi, non sono l’esatto esempio di una ragazza siciliana, anzi, direi proprio di poter essere scambiata più per una ragazza nordica: lineamenti delicati, bianca come un fantasmino e minuta.

Ho sempre pensato di non appartenere appieno a questo mondo, ho sempre vissuto in un angolino tutto mio, che si trovava nella mia mente, un mondo in cui non esistevano case, ma solo tanti alberi, fiori sparsi ovunque, persone che sorridevano a ogni sguardo che incrociavano.

Io sono così, amo leggere, amo gli sguardi, amo camminare per strada e guardare le persone che passano, amo immaginare e forse è per questo che una cioccolata calda, un bel film e una coperta morbida rappresentano, per me, la serata perfetta. Fin da piccola ero una bimba molto sensibile, l’idea di ferire una qualunque persona, che fosse un amico, una sorella o un genitore, mi tormentava.

Chi ero io per far stare male qualcun altro? Forse con il tempo mi sono accorta che questo mio pensiero, che mi accompagna tutt’oggi, è stato un gran pregio per gli altri, ma anche un po’ un difetto per me stessa, si rischia di valorizzare troppo gli altri annullando se stessi, preferire il bene degli altri al proprio. Il mio sogno da ragazzina era di diventare una psicologa, o in alternativa un’infermiera, volevo essere utile per aiutare gli altri, capire le loro necessità e dargli un pizzico di conforto in una vita che non sempre è rose e fiori come poteva essere quel mondo utopico che vivevo nei miei sogni. Vengo considerata spesso “troppo perfetta”, “troppo buona”, io non sono perfetta e non esistono persone troppo buone, esiste la diversità, ogni animo è diverso da un altro, per quanto è possibile trovare aspetti comuni con altre persone, esiste quella piccola parte che ci differenzia, sta a noi trovarla e farne un punto di forza. Io sono un groviglio, un miscuglio di tanti “mini me” che insieme formano la vera Claudia, non è facile descrivermi a parole, ma posso dirvi che sono estremamente lunatica, ma anche una sognatrice, sono timida, ma molto ottimista e a volte insicura di me stessa, se riesco a trovare mille aggettivi carini per descrivere una persona, per me fatico a trovarne due, riconosco il mio carattere, ma trovo difficile raccontare le mie qualità, penserete: “un po’ incoerente forse”, non avete tutti i torti.

Ho introdotto il mio racconto con lo spiegare chi sono, perché descriverò la mia storia in un modo un po’ particolare, credo sarà diversa da quelle che siete soliti sentire riguardanti l’argomento malattia, vi parlerò di forza, vi parlerò di sorrisi, vi parlerò di maschere, non userò una scaletta ma vi racconterò tutto quello che in questo istante ho il desiderio di mostrarvi.

Molte volte giudichiamo la gente basandoci sulle apparenze, invece dovremmo darci del tempo per scoprire qual è la verità. Questa è la mia verità. Ho avuto un’infanzia molto bella, la mia vita proseguiva normalmente, una famiglia unita, anche se non mancavano i battibecchi in casa; durante l’adolescenza è normale rendere ogni minima delusione una catastrofe, perciò anch’io ho vissuto litigi, primi amori, prime sensazioni, primi sguardi in un mondo che non conoscevo ancora, muovendo i veri e propri primi passi; ogni momento, seppur duro, è stato significativo, e sono felice di averlo vissuto, descrivendolo adesso come un bel ricordo.

La vita è una grande scalata, non so ancora cosa ci sia in cima o se esiste una cima, ma so che è il percorso la parte più importante; ogni tanto c’è qualche buca che ti fa inciampare, a volte un bivio di fronte a te, altre volte un vicolo cieco. Frequentavo l’ultimo anno di scuola, cercavo di prendere decisioni giuste per me, per il mio futuro e avevo compiuto da poco diciotto anni quando, una mattina, svegliandomi già stressata nell’affrontare un’altra giornata scolastica, sfiorandomi il collo notai al tatto una massa, una pallina sulla clavicola sinistra, era dura, era immobile, era lì.

Non gli diedi molta importanza in quel momento, mamma diceva che poteva essere una ghiandola ingrossata, ed io in quel periodo avevo altri pensieri per la testa, ero spesso assente da scuola a causa di una gastrite nervosa che non accennava a sparire, dovuta alla mia costante ansia e preoccupazione di essere sotto esame di fronte ai professori, agli occhi della gente, alla vita.

A volte penso che tutto nella vita accada per una ragione ben specifica, quel mio stato d’ansia e le continue assenze da scuola mi portarono qualche settimana più tardi a recarmi dalla dottoressa di base per un certificato medico; approfittando della visita, mostrai quella massa.

La dottoressa mi sorrise dicendomi di non preoccuparmi; sarebbe stata sicuramente una piccola ghiandola dovuta all’arrivo del ciclo mestruale, ma il suo sguardo cambiò nel momento in cui mi toccò: qualcosa non andava. Mi mandò da un suo caro amico collega, un chirurgo, e notai che nella richiesta scrisse: tumefazione sovraclaveare sinistra. Non vi so spiegare al meglio quell’istante, ammetto in tutta sincerità di non essere mai stata un’ipocondriaca, però sentivo dentro di me che si trattava di un tumore, ascoltavo il mio corpo, le mie sensazioni, forse perché in famiglia era già accaduto qualcosa di simile due anni prima al marito di mia sorella. Cercai, come mia abitudine, delle informazioni su Internet, non c’erano più dubbi: linfoma di Hodgkin. Non ero dunque stupita del risultato, ma quando il chirurgo, senza alcun esame, solo toccandomi, disse ai miei genitori sfacciatamente: “Si tratta di un cancro, dovrà fare chemioterapia” mi si gelò il sangue dal poco tatto, soprattutto per i miei genitori, la loro sofferenza era un pugnale per me. Feci parte del reparto di ematologia di Catania, la mia città, conobbi dei dottori splendidi, persone che amano il loro lavoro e si ponevano a mia completa disposizione per aiutarmi sia fisicamente, ma soprattutto psicologicamente, ovvero la parte più complessa.

Iniziò così il mio via vai, entra ed esci dagli ospedali. Il primo esame che feci fu la biopsia, ovvero prelevare un campione di questo piccolo mostro che aveva deciso di abitare in me, analizzarlo, e capire quale procedura era più adeguata per accompagnarlo gentilmente fuori dalla mio corpo. Credo che fu proprio in quella sala operatoria che tutte le mie certezze, il mio stato di apparente tranquillità, il mio pensiero positivo caddero come pezzi di vetro al suolo, fu in quell’ istante che mi resi conto di ciò che avrei dovuto affrontare, di come la vita sarebbe cambiata, e di quanta sofferenza tutto questo avrebbe causato alle persone che amavo; scoppiai in lacrime guardando l’infermiere che in tutti i modi, mentre mi operavano, cercava di farmi sorridere.

Quel giorno scattò un pensiero nella mia testa, avrei fatto di tutto per far stare tranquille le persone al mio fianco, non mentendo, non nascondendo il mio disagio o la mia sofferenza, ma cercando di essere forte, non ingigantire qualcosa che era già troppo grande, vivendo ogni situazione con grinta.

…continua nella seconda parte

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