Lo ha dichiarato l’infettivologa Evelina Tacconelli in una lunga intervista ad Avvenire.
«Una sola dose di anticorpi monoclonali, somministrata al paziente con Covid-19 nei primi tre giorni di infezione, in una sola ora riduce di oltre l´80% il rischio di ricovero ospedaliero: non solo evita la malattia severa, quindi la terapia intensiva o addirittura il decesso, ma costa infinitamente meno di un ricovero. Eppure in Italia in alcune regioni i monoclonali non sono stati utilizzati, addirittura sono stati trasferiti in altre regioni per evitare che scadessero». Uno spreco incomprensibile, che però non avviene nei reparti gestiti da Evelina Tacconelli, 54 anni, professore ordinario di Malattie infettive e direttore della clinica di Malattie infettive dell’Azienda ospedaliera universitaria di Verona, nonché responsabile del gruppo di ricerca sulle infezioni resistenti agli antibiotici dell’Università di Tübingen in Germania.
«Chi è positivo ci contatta, lo valutiamo clinicamente e se pensiamo che per lui i monoclonali possano essere utili gli diamo immediatamente l’appuntamento. Da noi basta una telefonata per ricevere la terapia e tornarsene a casa poco dopo con un´altissima probabilità di non sviluppare il Covid-19». In una parola, guariti. Non solo: «La notizia è che stanno arrivando anticorpi monoclonali in grado anche di fare prevenzione prima del contagio. E altri ancora potranno essere utilizzati subito dopo un possibile contagio, sempre per prevenire».
Facciamo due conti: i monoclonali costano circa 1.500 euro e prevengono ricoveri che allo Stato costano decine di migliaia di euro a paziente. Per quale mistero allora non vengono usati?
«A parte la difficoltà di produrre rapidamente le evidenze scientifiche necessarie per le linee guida terapeutiche, ma è anche un problema di cultura medica. Gli stessi medici, sottoposti a uno stress lavorativo imponente, non hanno trovato il tempo corretto per un’informazione appropriata e questo è sicuramente comprensibile. Ma l’Italia aveva già un problema di base: rispetto ad altri Paesi l´aggiornamento medico continuo non è organizzato in maniera consistente ed è troppo spesso lasciato nelle mani delle industrie farmaceutiche. E’ gravissimo, perché quello che abbiamo studiato durante l’università è solo una porzione infinitesimale di quanto è possibile fare oggi, e senza un aggiornamento permanente possiamo fare errori molto gravi. Ad esempio: molte delle informazioni sulle terapie anti Covid-19 a tutt’oggi non hanno raggiunto la popolazione medica, penso alla Clorochina e alla Azitromicina, farmaci che all’inizio dell’epidemia parevano essere utili, poi sono stati controllati in studi globali condotti secondo tutte le regole dell’evidenza che ne hanno dimostrato chiaramente l’inutilità, anzi forse un rischio per il paziente che li assume».
Quindi all’estero i monoclonali si usano di più?
«In alcuni Paesi europei e in regioni dell’America e del Canada sì. Diciamo che il limite maggiore per l´utilizzo rimane la valutazione costo/efficacia, D da che tipo di popolazione vogliamo trattare: se trattiamo tutti gli asintomatici giovani compresi, persone che hanno un rischio di finire in ospedale dell’0.5%, l’analisi è da rivalutare attentamente perché il costo è senz’altro superiore. Ma sono molte le variabili che hanno un impatto sul costo/beneficio, in primo luogo il fatto che se si occupano con pazienti Covid-19 i posti letto per esempio in Medicina, bisogna calcolare anche il danno pagato da pazienti oncologici o cardiopatici o anche solo che si sono fratturati una mano, che per mesi non avranno accesso al servizio sanitario».
L’uso che invece in Veneto fate dei monoclonali fa della regione il laboratorio-pilota d’eccellenza per tutta Italia.
«Visto che contro il virus SARS-CoV-2 ad oggi esiste un armamentario terapeutico estremamente limitato, appena il ministero della Salute ed Aifa li hanno autorizzati in via emergenziale, noi abbiamo ritenuto indispensabile utilizzarli. Sottolineo che sono stati messi a disposizione da Aifa gratuitamente per tutte le regioni. E colgo anche l’occasione per sottolineare di non avere, né di aver mai avuto, alcun rapporto con le case farmaceutiche che producono monoclonali. Tengo a precisarlo perché il rapporto case farmaceutiche-medici non è ancora abbastanza chiaro in Italia, e necessita con urgenza di una rivalutazione a livello ministeriale per evitare un utilizzo improprio delle nuove molecole prodotte, come per esempio i nuovi antibiotici. Detto questo, la rapida scoperta dei monoclonali ci ha fornito rapidamente un farmaco che ha un impatto clinico enorme, soprattutto sul paziente fragile, e il giorno stesso che è uscita la delibera siamo partiti. La Regione Veneto inoltre ha ampliato i criteri per selezionare i pazienti da trattare, quindi abbiamo diffuso il numero di telefono da chiamare nel caso si abbia un tampone positivo: è essenziale però che la terapia venga effettuata entro 72 ore dalla comparsa dei sintomi. Il sistema funziona se c’è totale collaborazione con la medicina territoriale e con il medico di medicina generale, che per primo segnala al nostro ambulatorio i pazienti più fragili. E’ una grande soddisfazione ricevere le loro telefonate quando sono guariti».
E’ corretto affermare che i monoclonali riducono dell’85% ricoveri e decessi?
«Dipende: se confronto ad esempio due gruppi di pazienti che sono over 60, con comorbidità, trattati uno col monoclonale e l’altro senza nulla, in quelli trattati la riduzione di rischio è intorno all’85%. Ovvio che se invece riferisco questo dato a tutta la popolazione, dove di per sé la mortalità è molto bassa perché comprende i giovani, la percentuale scende».
All’inizio c’era una guerra tutta interna ad Aifa tra chi voleva introdurli e chi era contrario. Poi è arrivata l’autorizzazione, ma quanti mesi persi…
«Non conosco i motivi della querelle e fondamentalmente non credo che debbano interessare i medici ».
Certo sarebbe ideale se potessimo dare il monoclonale indistintamente a tutti i positivi: quasi nessuno si ammalerebbe più. Ma è una chimera?
«Sicuramente l’effetto sarebbe lo stesso in tutti i soggetti, perché il monoclonale va a potenziare la risposta immunitaria dell’organismo proteggendolo con anticorpi di origine umana, praticamente gli dà un supporto di anticorpi che da solo l’organismo non ha ancora prodotto. Però somministrarli a tutti sarebbe uno sforzo impossibile: occorrono ambulatori dedicati, bisogna informare ogni paziente, visitarlo, e dopo un’ora di infusione tenerlo in osservazione un’altra ora… Riusciamo a farne 15-20 al giorno, sabato e domenica compresi, quindi selezioniamo chi ha almeno un fattore di rischio, anche solo l’età, oppure una comorbidità importante come l’ipertensione grave, il diabete, la dialisi, un tumore… Sicuramente la rapida somministrazione del farmaco ha salvato la vita ai vaccinati delle popolazioni fragili ¬– oncologici, trapiantati, ecc. – che purtroppo hanno una risposta al vaccino estremamente più debole rispetto all’immunocompetente e possono trovarsi positivi».
Il paziente non a rischio lo rimandate a casa?
«Se per ipotesi si tratta di un 20enne, che non ha a casa un familiare più anziano, che non lavora con i bambini, che non ha un genitore diabetico, insomma che non presenta proprio alcun evidente fattore di rischio, tendenzialmente sì. Come vede, però, le maglie sono molto larghe, diciamo che ad oggi noi non lo abbiamo rifiutato a nessuno, anche perché ci chiama chi ha problemi, non il 20enne che lavora dal computer a casa e ha un po’ di mal di gola».
Cosa vuol dire che gli anticorpi monoclonali sono “di origine umana”? In tempi di complottismo è bene spiegarlo.
«Che oggi si ottengono utilizzando il linfocita originario B, che è quello che poi produce gli anticorpi, una proteina di origine umana. Preciso che molti dei nostri pazienti sono no vax».
Quante persone nel “laboratorio-Veneto” avete già trattato? Quanti altrimenti sarebbero probabilmente finiti in maniera molto diversa?
«Oltre 2mila. E abbiamo analizzato nel dettaglio i primi 700 dei pazienti trattati in regione – lo studio è già in revisione in una rivista scientifica internazionale – con la collaborazione di tutti gli altri centri infettivologici del Veneto. Il risultato è che con la combinazione di due anticorpi (non ne usiamo più uno singolo) il rischio di ospedalizzazione crolla dal 21-25% all’1-5% a seconda della gravità del paziente. Tra i pazienti con gravi malattie di base, vaccinati e trattati con i monoclonali, nessuno è stato ricoverato».
Questo con una sola flebo in ospedale sotto controllo medico. Ma sono già annunciati futuri monoclonali da fare con una normale puntura intramuscolo. Potranno essere somministrati a casa?
«Sull’anticorpo monoclonale intramuscolo c’è una valutazione in corso, non sappiamo ancora se potrà essere somministrato dal medico di medicina generale, perché c’è un rischio seppure minimo (al di sotto dell’1% e anzi in molti trial non si è mai verificato) di reazione anafilattica, ma questo vale per qualunque farmaco. Il suggerimento è di procedere sempre in un luogo che sia attrezzato a soccorrere il paziente in caso di reazione allergica».
È vero che la variante Omicron depotenzia gli anticorpi monoclonali o è un’ipotesi ancora basata sul nulla?
«Al momento non ci sono dati a questo proposito, sono in corso, anche in Veneto, numerosi studi sulle varianti, che a breve ci daranno risposte. Sappiamo che l´anticorpo monoclonale che non usiamo più non era attivo su alcune varianti. Consideriamo comunque che molti monoclonali sono in arrivo sul mercato e quindi l´offerta è ampia.
È pensabile di sostituire il vaccino con i monoclonali? Di rinunciare alla prevenzione e curare la malattia quando già c’è?
«Assolutamente no, l’arma più potente che abbiamo continua a essere il vaccino. Però c’è una buona notizia: sono in arrivo, dopo la conclusione degli studi di approvazione in numerosi Paesi europei e americani, nuovi monoclonali che agiranno anche per la prevenzione, cioè saranno utili sia prima di un tampone positivo che dopo, pre-esposizione e post-esposizione. Sarebbero importantissimi in particolare per i trapiantati che, sebbene vaccinati, hanno un alto rischio di non risposta. Alcuni studi dimostrano che la protezione preventiva data da questi nuovi monoclonali dura da minimo quattro settimane fino ad alcuni mesi. Però attenzione, non sono comparabili alla durata della protezione data dal vaccino».
Lo zoccolo duro dei no vax accetterebbe volentieri anche un monoclonale ogni 4 settimane, pur di non vaccinarsi…
«Se si voleva che tutti facessero il vaccino, doveva essere obbligatorio. Siccome non lo è, il paziente ha sempre il diritto di rifiutare qualunque terapia. Il vero problema però è essere sicuri che tutti quelli che dicono “non lo voglio fare” abbiano avuto un’informazione corretta, ed era compito del ministero garantirla. La mia percezione, con i pazienti che ho conosciuto in questo anno, è che molti dei “no vax” lo sono in quanto insicuri degli effetti del vaccino, e questo deriva dal bombardamento di informazioni non controllato e spesso contradditorio. Non avevamo esperienza nel gestire una pandemia così grave con i media che abbiamo oggi, non c’è un altro esempio simile nella storia. E’ diventato difficile orientarsi persino per il medico che ha già dovuto fronteggiare l’impatto del Covid, la paura per i propri pazienti ma anche per se stesso e la propria famiglia, e che non è detto debba essere sempre un eroe, che è un uomo come tutti gli altri: dove trova il tempo per mantenersi aggiornato e filtrare la mole di notizie? Quello che dovremmo aver imparato dal Covid è che il piano pandemico non deve solo assicurarsi che ci siano posti letto, ma anche che ci sia un coordinamento nazionale per un’informazione corretta, che eviti i litigi tra “virologi” in diretta tivù. Il divo medico è una cosa che trovo intollerabile».
Le due pillole antivirali ancora allo studio, Merck e Pfeizer, saranno complementari all’anticorpo monoclonale? Se dovessero essere approvate, anche quelle andrebbero assunte nelle primissime fasi…
«Il problema sia delle pillole che dei monoclonali è che è necessario avere una diagnosi il più possibile vicina alla comparsa dei sintomi… È vero che da indicazione Aifa i monoclonali si possono fare entro i primi dieci giorni, ma tanti studi hanno dimostrato che se la persona ha già i suoi anticorpi, fare dei monoclonali in più non la aiuta, a quel punto la malattia fa il suo decorso naturale, in senso positivo o negativo. Quindi si tratta di identificare questi soggetti nelle prime 72 ore. Quanto alla terapia antivirale, mancano ancora i dati definitivi, vedremo se saranno approvate, più armi terapeutiche avremo e meglio sarà».
Monoclonali e bambini?
«Sotto i 12 anni non vengono utilizzati, per il momento non ci sono dati. Più che i bambini comunque la mia preoccupazione è tenere le persone anziane fuori dall’ospedale e assicurare che ci siano i posti letto per tutte le altre malattie. Il problema della scelta no vax è anche questo: tu hai diritto di non farti il vaccino, ma devi considerare che, se il virus continua a circolare, se dopodomani tuo figlio ha un incidente stradale e sta due giorni in pronto soccorso perché non c’è un letto, parte di quella responsabilità è tua».
Attualmente tra i vostri ricoverati a Verona, che rapporto c’è tra vaccinati e non vaccinati?
«L’80% sono non vaccinati. Dei vaccinati nessuno è una persona in buona salute: o sono anziani che non avevano fatto in tempo a fare la terza dose e nemmeno il monoclonale, o pazienti immunodepressi e con malattie severe. Degli anziani e dei pazienti con patologie importanti cui abbiamo fatto immediatamente il monoclonale neanche uno è stato ricoverato. Per me come medico ciò che conta è mantenere il paziente fuori dall’ospedale, a quel punto se anche ci fossero 50mila casi con forme lievi come un raffreddore, onestamente me ne farei una ragione».
Oltre a questo progetto che altre ricerche ha in corso, sul fronte Covid e non solo?
«Tante. Abbiamo appena vinto il bando pubblico di Aifa per gli studi sui monoclonali, che andremo a confrontare tra di loro per trovare il più efficace. E abbiamo creato una piattaforma di centri clinici in tutta Italia che lavorano insieme, per ora sul virus Sars-Cov2. Ma la mia idea è di non perdere l’esperienza del Covid e di utilizzarla per quella che è la nostra priorità, cioè ridurre la mortalità per le infezioni resistenti agli antibiotici. Questa è la vera battaglia per il futuro dell’umanità, ed è una battaglia che in Italia per ora è persa, siamo il Paese peggiore d’Europa per casi e decessi ma sembra che non importi a nessuno».
In che senso abbiamo esaurito gli antibiotici a disposizione? Non se ne possono creare di nuovi?
«Lo sviluppo degli antibiotici è un processo chimico e biologico estremamente costoso, così negli ultimi 20 anni le case farmaceutiche hanno lentamente abbandonato la ricerca su questi farmaci per lavorare, per esempio, sugli anticorpi monoclonali usati in oncologia e sulle chemioterapie, che sono estremamente più redditizi. L’antibiotico deve costare poco, di conseguenza non è attraente. Però a fronte di un’industria che produce meno, ci sono tantissime iniziative politiche europee, guidate soprattutto dagli inglesi, che stanno cercando di contrattare una sorta di budget fisso alle case farmaceutiche: il concetto è “se riesci a produrre un antibiotico capace di contrastare i batteri che ti indico io, ti do un’entrata di cui tu azienda sei già sicura per i primi due anni”. Noi abbiamo prodotto per l’Oms la lista dei batteri più pericolosi, per i quali è urgente trovare nuovi antibiotici.
Quindi una mera questione di soldi… E se la prossima epidemia fosse batterica?
«In realtà è già in corso. Se in Italia nel 2018 sono morte 11mila persone per gravi infezioni batteriche resistenti agli antibiotici, cifra stimata per difetto dai CDC europei, i centri per il controllo delle malattie trasmissibili, l’epidemia c’è già, causata da un uso assolutamente scorretto di terapie antibiotiche che ci ha resi resistenti ai farmaci. Il problema è anche di conflitto di interessi: se un Paese prescrive un antibiotico venti volte di più rispetto all’estero, è perché ha più infezioni o perché non c´è controllo su chi ha “la manica larga”? Non è possibile che nessuno sia responsabile se in vent’anni l’Italia è arrivata al punto che, se io mi ricovero nel nostro Paese per un trapianto al cuore il mio rischio di morire per un’infezione batterica resistente, dopo tutto quello che ha fatto il chirurgo per salvarmi, è di 10 contro lo 0,1 di chi si ricovera a Oslo per lo stesso problema. Se ci sono ancora medici che prescrivono un antibiotico al paziente per un po’ di febbre, e come spiegazione dicono “qualcosa dovevo pur fare”, di lavoro ce n’è ancora parecchio. Credo sia arrivato il momento per la comunità medica di fare un serio mea culpa ed affrontare energicamente i cambiamenti necessari».
Perché secondo lei il vaccino anti Covid ha scatenato le peggiori fake news, incubi tipo “gli aerei cadono a causa dei piloti vaccinati”?
«Me lo chiedo anch’io. Penso che sia un mix di paura e disinformazione. Sono convinta della buona fede di queste persone, ci credono davvero. E poi c’è un po’ la sindrome tipica italiana del complotto, del “non ce lo dicono”, cosa che in Germania dove ho lavorato molti anni si verifica molto meno. Sicuramente i messaggi spesso non sono chiari: aver detto per mesi “fatevi il vaccino e sarete protetti”, quando ora bisogna farsi di corsa un booster, ha causato disorientamento e delusione. Bisognava spiegare dall’inizio che per molti vaccini, come ad esempio l´epatite B, possono essere necessari “richiami” per stimolare l’immunità. La comunicazione conta».
Sui social gira un fantomatico studio che denuncia l’aumento di mortalità del 50% nell’umanità da quando esiste il vaccino anti Covid. Dati “nascosti dagli scienziati”, è l’accusa. Lo diffonde su Facebook una parlamentare non medico.
«I dati se li torturi ti dicono tutto quello che vuoi… Io di morti vedo solo quelli nel mio reparto, e per Covid, non per vaccino. I CDC e i MMWR, report settimanali di monitoraggio, sono tra le istituzioni più serie americane e dubito che abbiano mai manipolato nella storia i dati, poi per quale obiettivo? Pensi che interesse ci sarebbe se questo dato fosse vero e quanto sarebbe facile provare un’ipotesi di questo tipo: analizzare i decessi e sostenere che dal vaccino in poi sono cresciuti, non è un’analisi sofisticata, ci sarebbero già state migliaia di pubblicazioni di scienziati veri, in gara per essere i primi a fare una scoperta del genere… E’ pura fantascienza. Invece è interessante il rapporto basato sul SISMG, il Sistema di sorveglianza rapida della mortalità giornaliera, che analizza 19 città italiane e mette a confronto la mortalità dei primi mesi del 2020 con i dati storici: già l´anno scorso, quando i vaccini non erano disponibili, si documentava in particolar modo un eccesso di mortalità nelle città del Nord dove la pandemia di SARS-CoV-2 era gia´ diffusa (Brescia 88%, Genova 38%, Milano 36%)».
La Lombardia sta accogliendo i malati Covid dalla Germania, che ormai ha oltre 450 morti al giorno e le terapie intensive al completo. Anche in Italia vediamo un aumento di decessi e soprattutto di contagi, ma la strada tracciata da noi è evidentemente la migliore?
«Io non so se ci si renda conto del fatto che in Italia stiamo facendo veramente una bella vita, rispetto all’estero. Ho colleghi in tutta Europa che ormai da un mese cancellano riunioni, convegni, eventi educazionali per gli studenti. Ieri da Amsterdam e dal Belgio, dove da tempo avevano riaperto tutto senza mascherine e controlli, e con meno vaccinazioni, mi hanno telefonato dicendo che i reparti sono di nuovo pieni. Inoltre non si parla mai dei numerosi adolescenti morti di Covid negli Stati Uniti e in Inghilterra, cosa estremamente dolorosa perché era evitabile. Ma in Inghilterra i mesi scorsi non è stato dato accesso al vaccino come in Italia, e ho sentito colleghi disperati per non aver potuto proteggere i giovani prima. Per una volta l’Italia è un bell’esempio, se fossimo stati dall’altro lato e al posto nostro ci fosse stata l’Inghilterra, i nostri giornali avrebbero urlato che “non siamo in grado di fare come gli inglesi”. Qui conduciamo una vita tutto sommato normale, rispettare il distanziamento e indossare una mascherina è davvero così tragico?».
Come giudica la decisione di Paesi come Singapore di non rifiutare le cure a nessuno, ma di pagarle solo a chi si è vaccinato?
«Qui si ribella la mia anima ecumenica, come la definiscono i miei colleghi. Ho sempre difficoltà ad accettare che i diritti di qualcuno vengano lesi, credo in una sanità pubblica uguale per tutti, quindi uguale per l’assassino, per il bambino innocente di un mese, per il no vax e per il sì vax. Mi è indifferente, tutti dovrebbero essere curati allo stesso modo, perché se si comincia così non si sa dove si finisce».
Eppure anche in Italia, se decidi di scalare una montagna nonostante l’allerta meteo, l’elicottero del soccorso te lo paghi…
«Però non è la sanità pubblica. Io ho difficoltà ad accettare che ci sia un paziente che ha fatto un errore di qualunque tipo e per questo venga trattato diversamente sul piano della cura. Allora se fumo due pacchetti di sigarette al giorno, perché devo essere curato? Me la sono voluta… O se mi drogo? La sanità e l’educazione devono essere sempre garantite a tutti, gratuitamente e in modo uguale. Tra l’altro c’è gente che non è no vax ma ha paura perché ha letto qualcosa e non riesce a decifrarlo, ma siamo sicuri che sia colpa sua e non di chi volontariamente gli ha dato quella falsa informazione?».
Infine sul long Covid quali evidenze avete raccolto, a quasi due anni dall’inizio della pandemia?
«Noi come Università di Verona-Malattie Infettive siamo il coordinatore di Orchestra, l’unico progetto selezionato a livello europeo con 30 milioni di euro per studiare le conseguenze a lungo termine nei fragili e nei bambini. Coordiniamo quindi i lavori in tutta Europa, in collegamento anche con il Sud America e l’Africa, e seguiamo 1.200 persone solo a Verona, in Europa circa 10mila. Con questo osservatorio stiamo vedendo che c’è una grande fetta di popolazione che 12 mesi dopo il Covid non riesce in nessun modo a tornare a una vita normale, con pesanti conseguenze psicologiche, psichiatriche, cerebrali, muscolari, neurologiche, gastrointestinali… Persone che per una ragione o per l’altra non sono più chi erano prima. Ma c’è anche un’altra forma di “long Covid” che ci riguarda un po’ tutti: questi due anni sono stati una specie di esperimento sociale di psicopatologia, abbiamo vissuto qualcosa di inimmaginabile, io non penso di essere la stessa persona di due anni fa, e ho il terrore di vedere che cosa succederà a questi bimbi che non sono andati a scuola per un anno, che a tre anni pensano sia normale lavarsi le mani ogni cinque minuti, che hanno imparato a non abbracciare nessuno. È stato un evento che ci ha cambiati, altro che 11 Settembre, e i risultati li vedremo per anni e anni. La mia speranza è che tutto questo non venga sprecato e diventi risorsa, possiamo da qui ripartire per creare rapporti più sani, un nuovo equilibrio, un mondo realmente più giusto e normale. Abbiamo sotto gli occhi la realtà: che davvero nessuno si salva da solo».
Redazione Nurse Times
Fonte: Avvenire
- Treviso, uomo tornato dal Congo muore per sospetta febbre emorragica. Il virus misterioso potrebbe essere una forma grave di malaria
- Puglia, arriva la bocciatura della Corte Costituzionale: “Aress non può gestire concorsi e assunzioni per conto delle Asl”
- Caltanissetta, anziani legati alle sedie a rotelle in casa di riposo lager: 9 arresti tra oss e gestori. La condanna di UGL Salute
- Toscana, riapre la graduatoria Estar. Giannoni (Nursind): “Assunzioni di infermieri sbloccate in due Asl su tre”
- Schlein attacca il Governo: “7mila euro in più ai ministri e solo 7 agli infermieri?”
Lascia un commento