Introduzione di Giuseppe Papagni
Nicola Draoli, infermiere, Presidente del Collegio IPASVI di Grosseto, tra i più giovani alla guida di un Collegio, dopo l’episodio che ha visto coinvolta la nostra famiglia professionale nella ormai discussa e contestatissima trasmissione televisiva “Tagadà” di La7, cerca di esaminare le cause di questo “cannibalismo mediatico”, esprimendo un interessante punto di vista.
…di Nicola Draoli
Sulla trasmissione Tagadà e sulle gravissime esplicitazioni della conduttrice e degli ospiti in studio abbiamo assistito ad una risposta corale e compatta degli infermieri.
Risposta che personalmente mi entusiasma e mi commuove perché evidenzia come la nostra professione, quando si compatta e si coagula, dimostra una forza che non ha eguali. Una forza dettata dal numero certo ma in questo caso dalla consapevolezza della nostra specifica professionale.
Del resto il Triage è un modello ben consolidato, che sentiamo appartenerci senza timori, normato e collaudato sia da evidenze scientifiche organizzative che clinico assistenziali. Non è un caso che anche alcuni medici e politici ci abbiano affiancato in questa legittima indignazione.
Da questa vicenda però vorrei trarre alcune considerazioni che mi piacerebbe condividere con voi e che ci devono far interrogare come professionisti e cittadini. Esiste una sottocultura sanitaria in Italia disarmante. Una sottocultura che relega al sapere medico tutto lo scibile antropologico sociale sanitario manageriale, e chi più ne ha più ne metta, che si trova in sanità.
Ragionavo qualche giorno fa con una collega estremamente competente su questo assioma: non importa quanto tu sia preparato, formato, e culturalmente elevato. La parola di un medico, in Italia, soppianta ancora per credibilità storica e sociale quella di un qualunque altro professionista della salute anche a fronte di evidenze incontrovertibili.
E, attenzione, non è un attacco agli amici medici ma solo una considerazione su quella che oggi è una errata visione che il cittadino ha della sanità. Ricordo l’evento di una morte durante un volo aereo che suscitò molto scalpore e di come l’opinione pubblica si compattò nel richiedere un medico a bordo in ogni aereo. E analogo esempio fu il bambino soffocato da un wusterl in un Ikea e, anche qui, l’indignazione comune per chiedere medici a portata di mano.
Rammarica che come sempre il pensiero collettivo si riversi verso forme non adeguate di risoluzione, mirate sostanzialmente ad amplificare i servizi con prospettive monoprofesisonali. Una cultura che tende a concepire le soluzioni secondo il motto del “more is better” (un medico su ogni volo, un medico in ogni Ikea, un medico in ogni triage…). Una cultura in definitiva che pensa di essere più al sicuro con un medico, magari di chiara fama, a 10 metri dal pianerottolo di casa piuttosto che con un servizio multiprofessionale ben organizzato (esempi concreti: la tragedia di Pino Daniele).
Una cittadinanza la nostra che non conosce o rinuncia deliberatamente ad appropriarsi di una cultura sanitaria civile o laica che le permetterebbe intanto di prestare elementi di primo soccorso in attesa di interventi qualificati e che le permetterebbere di capire la più evidente delle verità: che il lavoro di equipe, che il gruppo multi-professionale, che la valorizzazione delle competenze e non delle professioni, portano al più grande vantaggio dell’utenza tutta, quello dell’appropriatezza organizzativa e clinica.
“effettuare la prestazione giusta, in modo giusto, al momento giusto, al paziente giusto “(1), dal professionista giusto, “erogata in condizioni tali (ambito assistenziale, professionisti coinvolti) da “consumare” un’appropriataquantità di risorse (efficienza operativa)” (2)
Il cannibalismo mediatico è in parte artefice ed in parte prodotto di questa deriva culturale. Da una parte non si preoccupa di fornire elementi di pensiero intellettualmente onesti e derivati da una pur banale lettura delle fonti (che in questo caso come in molti altri semplicemente è assente), dall’altra ricercando disperatamente consenso si abbassa sempre una tacca al di sotto del pensiero popolare. Se i media avessero sempre ragionato così non sarebbero mai nate trasmissioni negli anni 50/60 come “non è mai troppo tardi” che colmavano il diffuso analfabetismo, ma anzi trasmissioni che lo avrebbero favorito avendo come principale mission quella di cercare identità con lo spettatore, incalzandone il lato viscerale e violento, sfruttando l’indignazione, pasteggiando con le tragedie, approfittando delle incompetenze, e rinunciando ad ogni forma di crescita.
Però. Come in tutte le cose c’è un però. C’è che noi infermieri bisogna aver ben chiaro il nostro mandato professionale. Bisogna capirlo bene. Bisogna tracciare un percorso di pensiero comune. Ed è cosa tutt’altro che banale. Una professione forte lo è quando forte è il suo corpus scientifico disciplinare che la caratterizza, quando la complessità delle prestazioni è resa tale non dalla loro esecuzione ma dal processo scientifico che le rende evidenti e governate. In altre parole ancora, non è la prestazione andata a buon fine che rende un professionista competente, ma gli esiti di salute che ci si prefigge di raggiungere con quella prestazione e la capacità di misurarli e certificarli. E allora con il Triage siamo tutti d’accordo ed il risultato è questo fronte compatto e bellissimo che evidenzia tutto il sapere scientifico disciplinare e professionale che vi sta dietro.
Bisogna proprio investire moltissimo sulla comunicazione, sui processi relazionali, sull’educazione sanitaria. Bisogna creare alleanze, forum, incontri con i cittadini. Devono sentirsi coinvolti e partecipi in un percorso, devono sentirsi responsabilizzati. Bisogna dare loro gli strumenti per valutarci correttamente, la cultura per poter esigere una sanità diversa. Viceversa non riusciremo mai a far confluire le nostre visioni in questo caotico mondo dove troppe suggestioni errate arrivano a minare un rapporto fiduciario già tanto complicato.
Certamente hanno un ruolo le istituzioni tutte ma questo cambiamento comunicativo può e deve passare da noi tutti. Ogni volta che ci mettiamo in contatto con un nostro assistito.
(1) Definizione di Slow medicine
(2) Definizione di Gimbe
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