Riceviamo e pubblichiamo il contributo dell’Associazione Avvocatura di Diritto Infermieristico sulla sentenza Cass. n. 16503 del 05/07/2017
“Il malato va risarcito anche se l’intervento è stato fatto a regola d’arte”
Deve essere risarcito il paziente a causa del mancato consenso informato senza il bisogno di dimostrare che, se il medico gli avesse spiegato bene i rischi cui andava incontro, non si sarebbe sottoposto all’operazione.
Il ristoro all’ammalato dunque, può scattare anche se l’intervento risulta eseguito a regola d’arte nonostante l’esito sfavorevole.
E ciò perché l’obbligo informativo che grava sul sanitario ha natura contrattuale e costituisce una prestazione diversa dall’intervento medico richiestogli: trova infatti origine nel diritto all’autodeterminazione del paziente e non in quello alla salute.
È quanto emerge dalla sentenza 16503/17, pubblicata il 5 luglio dalla terza sezione civile della Cassazione.
Ma veniamo ai fatti:
la paziente ricorrente lamenta di aver subito lesioni a seguito di un intervento chirurgico in data 15 novembre 2001 a seguito di emilaminectomia parziale con foratominotomia ed erniectomia, per risolvere la sciatalgia a destra che gli procurava dolori lancinanti.
Con atto di citazione notificato presso il tribunale di Como, vengono coinvolti sia l’azienda ospedaliera di Como che il chirurgo operatore alla richiesta di risarcimento del danno iatrogeno e di quello derivato dal non essere stata adeguatamente informata circa le conseguenze dell’intervento stesso.
I convenuti resistenti, chiamano in causa le rispettive assicurazioni, all’esito della consulenza d’ufficio (CTU), il giudice di prime cure respinge le domande attoree, compensando le spese di lite tra le parti, tranne che nei confronti dell’assicurazione, condannando i convenuti alle spese anche in favore della stessa.
La danneggiata ricorre in appello, come anche l’ospedale ed il sanitario, la prima contro il rigetto delle domande in seno al danno subito e da difetto del consenso, i secondi sulla esclusione della copertura assicurativa da parte della compagnia NT Assicurazioni.
La corte di Appello esclude la responsabilità in relazione all’intervento chirurgico, per essere stato eseguito a regola d’arte, nonostante l’esito sfavorevole sulla paziente, accogliendo solo parzialmente la domanda della appellante danneggiata e liquidando in suo favore a carico dell’azienda ospedaliera e del chirurgo la somma di euro 30.000 omnicomprensivi, condannando costoro in solido al pagamento nei confronti della danneggiata appellante principale e per metà le spese di lite compensate di primo e secondo grado.
Ricorre in cassazione la danneggiata, lamentando e contestando con il primo motivo di riscorso il percorso motivazionale che ha condotto la corte territoriale a liquidare il danno con soli 30.000 €, essendo la stessa stata lesa nella sua autodeterminazione in difetto di consenso prestato all’intervento.
Con il secondo motivo di riscorso, per la mancata ammissione della prova per testi in ordine alle rassicurazioni ricevute dal chirurgo, durante le visite preoperatorie, sul carattere routinario dell’intervento e sull’esito migliorativo delle sue condizioni cliniche, dalle quali avrebbe potuto desumere il suo rifiuto di sottoporvisi, se adeguatamente informata dei rischi.
I ricorrenti incidentali dal canto loro, contestano sotto diversi profili, tra cui la mancata allegazione e prova del fatto che, in presenza di una più compiuta informazione, la paziente non si sarebbe sottoposta all’intervento.
La Corte reputa inammissibili i ricorsi nei confronti delle relative società assicurative per difetti di procedura e ammissibilità del ricorso, assumendo logica priorità il primo motivo di ricorso con il quale si contesta la spettanza del risarcimento, anch’esso è meritatamente infondato.
La valutazione della non completezza delle informazioni somministrate alla paziente prima dell’intervento, come su ogni altra questione di fatto ivi coinvolta, contrasta con un apprezzamento di merito sottratto a verifica nella presente sede di legittimità, rimanendo comunque gli apprezzamenti di fatto istituzionalmente riservati al giudice di merito.
Rimane comunque non corretta la tesi dei ricorrenti incidentali (medico e ospedale) secondo la quale, l’inadempimento dell’obbligo informativo, si concretizzerebbe solo in caso di allegazione e prova, da parte del paziente, di un suo probabile rifiuto all’intervento in caso di avvenuta ed adeguata informazione.
Risulta opportuno premettere – ricordata la natura contrattuale dell’obbligo gravante sul sanitario e quindi la sufficiente allegazione dell’inadempimento da parte del paziente creditore – che, come la corte ha già avuto modo di affermare (Cass. 13/02/2015 n. 2854), l’obbligo del consenso informato costituisce legittimazione e fondamento del trattamento sanitario, senza il quale l’intervento del medico è – al di fuori dei casi di trattamento sanitario per legge TSO – sicuramente illecito, anche quando è nell’interesse del paziente (Cass. 16/10/2007, n. 21748); pertanto, ai sensi dell’art. 32 Cost., comma 2, dell’art. 13 Cost. e dell’art. 33 della legge nr. 833/78, un tale obbligo è a carico del sanitario, il quale, una volta richiesto il consenso al paziente all’esecuzione di un determinato trattamento, decide in piena autonomia secondo la lex artis di accogliere la richiesta e di darvi corso.
Un tale obbligo attiene all’informazione circa le prevedibili conseguenze del trattamento cui il paziente viene sottoposto ed in particolare al possibile verificarsi, in conseguenza dell’esecuzione del trattamento stesso (Cass. 13/04/2007, n. 8826; Cass. 30/07/2004, n. 14638) di un aggravamento delle condizioni di salute, onde porre lo stesso in condizioni di consapevole consenso al trattamento sanitario prospettatogli (Cass. 14/03/2006 n. 5444).
Il medico ha pertanto il dovere di informare il paziente, in ordine alla natura dell’intervento, alla portata dei possibili e probabili risultati conseguibili e alle implicazioni verificabili.
L’acquisizione del consenso informato da parte del medico, costituisce una prestazione diversa da quella dell’intervento medico richiestogli, assumendo autonoma rilevanza ai fini dell’eventuale responsabilità risarcitoria in caso di mancata prestazione da parte del paziente (cfr. Cass. 16/05/2014, n. 11950) e si tratta in definitiva, di due diritti distinti (Cass. 06/06/2014, n. 12830):
- il consenso informato che attiene al diritto fondamentale della persona, all’espressione della consapevole adesione al trattamento sanitario proposto dal medico (Corte Cost. n. 438 del 2008) e quindi alla libera e consapevole autodeterminazione del paziente, atteso che nessun essere può essere obbligato ad un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge;
- Il trattamento medico terapeutico che, viceversa, riguarda la tutela del diverso diritto fondamentale alla salute.
Il diritto quindi di essere correttamente informati al fine di potere esprimere il consenso al trattamento sanitario sulla propria persona, va attentamente ricostruito alla stregua dei principi generali già affermati a partire da Cass. sez. unite 11/11/2008, n. 26972, come appresso a Cass. 12/06/20015, n. 12205.
La lesione del diritto di esprimere il c.d. consenso informato da parte del medico si verifica per il solo fatto che egli tenga una condotta che lo porta al compimento sulla persona di atti medici senza aver acquisito il suo consenso.
Il danno evento cagionato da tale condotta è rappresentato dallo stesso estrinsecarsi dell’intervento sulla persona del paziente senza previa acquisizione del consenso, cioè per restare al caso dell’intervento chirurgico, dall’esecuzione senza tale consenso sul corpo del paziente; danno evento in questione che risulta dalla tenuta di una condotta omissiva seguita da una condotta commissiva.
Il danno conseguenza è invece rappresentato dall’effetto pregiudizievole che, la mancata acquisizione del consenso e quindi il comportamento omissivo del medico, seguito dal comportamento commissivo dell’esecuzione dell’intervento, ha potuto determinare sulla sfera della persona del paziente, considerata nella sua rilevanza di condizione psico-fisica posseduta prima dell’intervento che, se le informazioni fossero state fornite, l’avrebbe portata a decidere se assentire o meno alla pratica medica.
Nella fattispecie, qualora fosse stato debitamente richiesto il consenso, la paziente:
- avrebbe avuto la possibilità e la facoltà di autodeterminazione, avrebbe potuto indirizzarsi e rivolgersi ad altre strutture qualora fosse emerso che, in relazione alla patologia, sarebbe stata possibile l’esecuzione di un altro intervento, vuoi meno demolitivo, vuoi anche determinativo di minore sofferenza, in tal caso si verifica anche un danno conseguenza rappresentato da vera e propria perdita della salute del paziente;
- avrebbe potuto evitare sofferenza e contrazione della libertà di disporre di sé stessa, psichicamente e fisicamente, in ragione dello svolgimento sulla propria persona dell’esecuzione dell’intervento, durante la sua esecuzione e nella relativa convalescenza;
- consentire o rifiutare la eventuale diminuzione a livello fisico per l’effetto dell’attività demolitoria che abbia eliminato, sebbene ai fini terapeutici, parti del corpo o delle funzionalità di esse: poiché tale diminuzione avrebbe potuto verificarsi solo se assentita sulla base dell’informazione dovuta e se si è verificata in assenza di questa, si tratta di conseguenza oggettivamente dannosa che si deve apprezzare come danno conseguenza indipendentemente dalla sua utilità rispetto al bene della salute del paziente, che è ben diverso dal diritto di autodeterminarsi rispetto alla propria persona.
In ogni caso deve ritenersi che il paziente, il quale invochi dispiegando la relativa domanda risarcitoria, l’incompletezza del consenso informato e quindi l’inadempimento del correlativo obbligo dei sanitari di somministrargli le informazioni necessarie per informarlo, allega implicitamente il danno alla sua libera e consapevole autodeterminazione che, in base a quanto accade normalmente, si ricollega quale conseguenza ineliminabile alla carenza di un quadro informativo completo e ben compreso o spiegato a chi dovrebbe valutarlo come base di una responsabile decisione.
Pertanto, la paziente non avrebbe avuto altro onere che allegare e provare l’incompletezza e l’inadeguatezza – per altro accertata e non censurata dalla corte di appello – dell’informazione ricevuta prima di sottoporsi alla rischiosa operazione.
Solo per ulteriori e più gravi conseguenze (decisione di sottoporsi ad intervento, acquisizione dei pareri, soluzioni alternative) sarebbe intervenuta la necessità di una più specifica allegazione della prova, nella specie per altro mai neppure prospettata o articolata.
Non può non riconoscersi che la motivazione della corte territoriale risulta priva di ogni indicazione dei parametri applicati o dei criteri seguiti per giungere alla conclusione del totale della quantificazione del danno in trentamila euro, ma è altrettanto vero che la danneggiata e ricorrente, non indica nel ricorso quale, a suo giudizio, avrebbe dovuto essere il corretto ammontare di quella liquidazione, dimostrando quindi sia che la somma in concreto riconosciutale non è inidonea e quindi errata per difetto, sia il mancato interesse a dolersi sull’effettiva liquidazione operata, pertanto il motivo da lei richiamato risulta inammissibile.
In conclusione quindi, è dichiarato inammissibile il primo motivo del ricorso principale, con assorbimento del secondo, mentre il ricorso dell’azienda e del chirurgo sono dichiarati tutti e due inammissibili.
La reciproca soccombenza delle parti rende giusta la compensazione delle spese.
Viene quindi bocciato il ricorso incidentale proposto dall’ospedale e dal medico, diventando così definitivo il risarcimento di 30 mila euro disposto con condanna solidale (dell’azienda e del medico) in favore della paziente per mancanza di un valido consenso informato.
Senza quest’ultimo, l’intervento medico risulta sicuramente illecito anche quando è nell’interesse del paziente (tranne per i trattamenti sanitari obbligatori e gli stati di necessità).
L’obbligo che ricade in capo al sanitario di rendere realmente edotto il paziente delle prevedibili conseguenze del trattamento cui sta per sottoporsi scaturisce dal secondo comma dell’articolo 32 della Costituzione, a mente del quale nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge: non c’entra dunque in questo caso il comma primo che tutela il diverso – e pur fondamentale – diritto alla salute.
La lesione si consuma per il solo fatto che il medico compie sul paziente atti medici senza aver acquisito il consenso dell’interessato.
E dunque all’ammalato, in quanto creditore della prestazione contrattuale, basta allegare e provare l’incompletezza o l’inadeguatezza delle informazioni ricevute prima di sottoporsi alla rischiosa operazione. Attraverso il ristoro della lesione all’autodeterminazione dell’ammalato non si può tuttavia recuperare l’esito infausto dell’intervento eseguito in modo corretto: si tratta di un diritto ontologicamente diverso da quello all’integrità fisica.
Dott. Carlo Pisaniello
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