Dalle testimonianze rese ieri è emersa l’assenza di un registro di carico e scarico per i farmaci stupefacenti.
«Forse non c’è stata solo una goccia di morfina. Forse al neonato è stata somministrata più volte nella stessa notte». Questa la diagnosi “a caldo”, nell’agosto del 2017, di Paolo Biban, primario di Pediatria a indirizzo critico dell’ospedale di Borgo Roma (Verona), a capo anche dell’unità a cui era assegnata Federica Vecchini, l’infermiera accusata di aver sedato il piccolo T., appena un mese di vita, per «calmarlo» e farlo «piangere meno».
Parole, quelle di Biban, pronunciate all’indomani dell’arresto della Vecchini per lesioni gravissime ai danni del bimbo. Ora, a distanza di anno e nove mesi, l’infermiera si trova al banco degli imputati e ieri il primario è stato chiamato a deporre in aula dal pm Elvira Vitulli. Dopo il fattaccio, Biban ha spiegato che al Policlinico venne subito condotta un’indagine interna, nelle cui conclusioni finali si faceva riferimento a un’intossicazione da oppiacei di tipo morfina riconducibile a “probabile errore umano”.
Nessuna risposta certa su dinamica e le responsabilità della somministrazione al piccolo, i cui genitori sono ora parte civile. Dopo quell’episodio, la Vecchini e la collega Elisa De Grandis (nel cui box c’era il piccolo T.) furono trasferite subito in un altro reparto, mentre le restanti infermiere furono ascoltate su quanto accadde quella notte (era il 19 marzo 2017) alla presenza della caposala e del medico anziano, dottor Renzo Beghini. Quest’ultimo, nell’udienza di ieri, ha dato conto della «ottima considerazione» di cui godeva fino a quel momento la Vecchini, sulla quale non sarebbero in precedenza emersi sospetti né ombre di sorta.
Degna di nota anche la deposizione della responsabile del servizio di Farmacia, dottoressa Paola Marini, che ha fatto riferimento ad «anomalie» nel registro di carico e scarico della morfina per via endovenosa. In particolare, all’epoca, non sarebbero state registrate le esatte quantità della sostanza prelevata e di quella residua da smaltire. Sia il primario Biban che il dottor Beghini, inoltre, hanno sottolineato che «i controlli e le procedure sono diventati più rigorosi e stringenti».
All’epoca dei fatti, però, la morfina era a disposizione di tutti. Chiunque del personale poteva prendere le fiale di Oramorph, chiuse in uno scaffale con chiavi sistemate nella bacheca comune. Una delle infermiere, chiamata a testimoniare, ha ammesso che le fiale, una volta utilizzate, sarebbero state tenute nel frigorifero – in corridoio, disponibile a tutto il personale – per poter usare il contenuto rimasto.
«Qualche giorno dopo il fatto, la Vecchini è venuta a cercarmi, chiedendomi dello sciroppo di morfina, ma le ho risposto che non veniva più utilizzato da anni», ha raccontato la dipendente dell’azienda ospedaliera, confermando poi che l’Oramorph non era soggetto al registro di carico e scarico, e che quindi, nonostante si dovessero comunque effettuare dei controlli, questi non erano gestiti con continuità e precisione. Incalzata dal pubblico ministero, la testimone ha ricordato anche un altro episodio strano accaduto in reparto nel gennaio del 2012, quando fu trovato, tagliato di netto, un tubicino che dava l’ossido citrico a un neonato ricoverato. Il processo continuerà il 4 giugno con l’esame di altri testimoni.
Redazione Nurse Times
Fonti: Corriere di Verona – L’Arena
Lascia un commento