Riceviamo e pubblichiamo una riflessione riguardante le terapie intensive aperte realizzata dal dott. Alberto Balestra, infermiere laureatosi nel 2015 presso l’Università del Piemonte Orientale
Negli ultimi anni si è spesso sentito parlare di terapie intensive aperte. Sono stati svolti studi a favore e scritti numerosi articoli in merito ai vantaggi che pazienti e familiari possono trarne. E’ difficile avere un giudizio obiettivo a riguardo, ma si può partire da alcune riflessioni.
La mia parte da un vissuto personale, un ricordo di qualche decennio fa, quando mio nonno era ricoverato in terapia intensiva. Io ero piccino e in ospedale ai bambini non era permesso entrare; una volta trasferito in degenza ordinaria, era lui a dover uscire a salutarmi nell’atrio, mentre in reparto entravano solo due parenti adulti in un rigidissimo intervallo orario.
Quando finalmente ero abbastanza cresciuto da entrare da solo in degenza ordinaria, se ero stato a giocare con amici al parco, quando mia mamma veniva a prendermi mi portava il cambio, perché in ospedale non si poteva entrare con i pantaloncini corti; una volta in reparto, spegnevamo i cellulari.
Sono poi diventato infermiere e, caso vuole, alla seconda esperienza lavorativa mi sono trovato proprio lì, in un altro reparto, ma nel medesimo ospedale dove spesso veniva ricoverato mio nonno. Sono rimasto colpito nel constatare come regole e orari di visita, nonostante i richiami, non venissero in alcun modo rispettati.
Porte sempre aperte, visitatori impegnati in conversazioni telefoniche ad alto tono di voce, bambini che gattonavano tra i carrelli della terapia, ecc. A raccontare oggi mi viene da sorridere ma se ripenso al mio ruolo in quel momento, vista la confusione, l’intervento di noi operatori sanitari per il ripristino dell’ordine si rendeva spesso necessario. Ciò ha causato sicuramente un dispendio di tempo e di energie che hanno comportato un forte stress.
Mi permetto di spostare il focus su un cambiamento che coinvolge in modo generale la nostra società, per motivare le mie prossime riflessioni. Percepisco di vivere in una società alla deriva, in cui il rispetto delle regole viene a mancare, in cui sempre più ci si sente legittimati a esprimere il proprio parere, pur nella disinformazione e nella mancanza di formazione, perché la realtà dei social ce lo consente.
Questo fenomeno si accentua se si parla di salute. Forse è diminuita la fiducia nel sistema sanitario nazionale o forse si crede di potersi facilmente informare da sé. Anche la comunicazione è cambiata, le distanze si sono ridotte molto, così come si sono appianate le differenze di ruolo; il rispetto nei confronti della figura medica, che un tempo godeva di assoluta riverenza, si è oggi ridimensionato.
La gente nel complesso è più istruita e dunque si sente sufficientemente competente per gestire qualsiasi problema. Talvolta, ci si dimentica che le regole hanno una funzione positiva, protettiva, garante di qualità. E allora mi domando: in una società in cui il rispetto per le regole e per il prossimo non è più cosa scontata, aprire le terapie intensive è una scelta saggia, che protegge i nostri pazienti?
Il mio parere, dettato dalle esperienza sia umane che professionali, è che una terapia intensiva aperta ad oggi avrebbe bisogno, per funzionare al meglio, di regole ancora più rigide di quelle di un tempo, mentre la mentalità odierna verte al raggiro, alla corruzione e all’egoismo.
L’“imbruttimento” di cui parlo, è corretto ammetterlo, non riguarda solo i visitatori, bensì anche gli operatori stessi, i quali non sono integerrimi quando si tratta dell’uso dello smartphone in reparto. Insomma, a mio avviso, con l’apertura delle terapie intensive si rischia un indebolimento ulteriore dei confini tra professionista e caregiver.
Da quasi tre anni lavoro in una rianimazione pediatrica “aperta” per 12 ore. Qui, dove le situazioni sono per la maggior parte assai delicate, i genitori possono entrare uno alla volta alternandosi durante il giorno, previa approfondita informazione circa le regole del reparto.
Con il passare dei giorni, non tardano a comparire alcuni ostacoli al corretto svolgimento delle procedure cliniche: quello che pare essere il primo bisogno dei familiari è la confidenzialità, tradotta con l’uso del “tu”, a prescindere dalla disponibilità dell’operatore. Una volta raggiunto un discreto grado di confidenza la richiesta che segue è l’ingresso di entrambi i genitori contemporaneamente nel box del proprio bimbo, violando l’accordo iniziale.
Solitamente, la richiesta si estende poi ad un terzo parente e così via. Ciò che, in condizioni di stabilità e tranquillità, l’operatore concede in via eccezionale, viene comunemente interpretata dai familiari come una concessione non revocabile, a difesa della quale si innescano spesso polemiche e tensioni assolutamente sconvenienti.
Se da una parte vi è una componente umana legittima, di sofferenza e di bisogno di contatto, alla quale l’operatore non rimane certo indifferente, dall’altra è dovere dell’operatore garantire la migliore cura del paziente in setting che siano il meno stressanti possibili per il paziente stesso e in situazioni di emergenza.
Soprattutto in quest’ultimo caso, il mancato rispetto delle norme di reparto rappresentano un ostacolo alla pratica clinica, alla qualità e alla tempestività dell’intervento. I genitori, che raramente ne prendono coscienza, si impongono piuttosto in fasi decisionali importanti, contrastando il professionista che detiene le competenze necessarie.
Per concludere, credo che la terapia intensiva aperta sia indubbiamente una meravigliosa e idilliaca realtà, ma temo che allo stato attuale la società non sia ancora pronta per un passo di tale importanza.
Alberto Balestra
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