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Mirko, l’infermiere che garantisce le cure palliative ai malati terminali di Covid-19 a domicilio

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Mirko, l’infermiere in moto che garantisce le cure palliative ai malati terminali di Covid-19 a domicilio
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Riportiamo l’articolo dedicato al dottor Mirko Porru, infermiere 36enne iscritto presso l’OPI Interprovinciale di Milano LMB apparso sul Corriere della Sera.

La paziente più piccola aveva tre anni, la più longeva oltre cento, ha curato malati terminali Covid-positivi durante le fasi più acute della pandemia e oggi fa il tampone a chi, affetto da malattie incurabili o nell’ultimo tratto di vita, deve essere ricoverato o presenta sintomi sospetti. Mirko Porru, 36 anni, da quasi cinque è infermiere per Vidas, fondazione che da 40 anni offre assistenza completa ai malati inguaribili e ai loro familiari a Milano, Monza e in 112 comuni dell’hinterland. Guidava una Harley-Davidson fino a un anno fa, poi un incidente l’ha portato su un più sobrio scooter, «più sicuro per girare in città»: Mirko si muove su due ruote per essere più veloce e correre da una casa all’altra del centro di Milano portando cure palliative a domicilio, «un mestiere per cui ci vogliono capacità relazionali e di ascolto, più che tecniche, perché noi non veniamo ricordati per aver messo un ago nel modo giusto, ma per quella carezza fatta, per quella parola detta nel momento del bisogno».

La giornata inizia presto — alcuni giorni ci sono anche sei o sette pazienti da assistere, senza contare le chiamate di emergenza —, quest’estate ancora di più, perché durante le ferie le richieste di assistenza domiciliare nelle città, che sembrano deserte, aumentano. «Ogni estate la richiesta di cure domiciliari cresce almeno del 10 per cento, portandoci nei mesi di luglio e agosto a seguire anche 180 pazienti — spiega Alberto Grossi, responsabile area sociale Vidas —. Quest’anno sono progressivamente aumentati: siamo sopra i 200 da diverse settimane. Da metà luglio ne abbiamo in carico circa 220». Un incremento di oltre il 22 per cento.

Mirko oggi ne cura 16.

«Lavoravo al San Paolo di Milano, mi sono licenziato perché volevo fare il mestiere che amo sul territorio, volevo offrire più cura e rispetto al paziente di quello che sentivo di poter fare in un ospedale». Ha scelto di passare l’estate accanto a loro: «La persona malata non va in vacanza, ha bisogno della nostra assistenza, quest’anno ancora di più». La pandemia ha influito sul numero di richieste di assistenza «per molti fattori: la maggiore difficoltà di accedere alle cure, la paura di andare in ospedale, la difficoltà di occuparsi di un familiare durante il lockdown», dice Mirko. Ma non è semplice indagare le ragioni di un incremento così ampio: «Può essere accaduto che, nel periodo di emergenza, si siano prodotti ritardi nelle diagnosi o nell’erogazione di certe terapie — dice Giada Lonati, direttrice sociosanitaria della fondazione —, provocando un aggravamento nel percorso di certe patologie. È anche auspicabile che la pandemia abbia portato una maggiore consapevolezza negli operatori ospedalieri rispetto al valore delle cure palliative determinando una crescita degli invii di pazienti. Infine non dimentichiamo che, in questo periodo, l’accesso ai luoghi di cura è spesso precluso ai familiari. Essere curati a casa significa poter restare accanto ai propri cari».

Quando Regione Lombardia ha chiesto ai professionisti la disponibilità di occuparsi di pazienti terminali Covid positivi,

Vidas ha dato pieno supporto: Mirko faceva parte di un’equipe che si è dedicata solo a loro per un mese. Durante il lockdown, nei casi di pazienti stabili, le visite sono state leggermente ridotte, «per continuare ad essere di aiuto, senza però mettere a rischio il paziente e la sua famiglia». Se dal punto di vista assistenziale, la pandemia non ha cambiato il modo di lavorare di Mirko, l’ha reso «più complicato: i dispositivi di protezione individuale e le precauzioni che occorre avere ostacolano la carezza, il sorriso, la vicinanza di prima». Ma non cambiano la natura del suo lavoro: «Assistere una persona nel fine vita è un percorso, è spiegare cosa succede in ogni momento a lui e alla sua famiglia. In una parola: esserci».

Dott. Simone Gussoni

Fonte: Corriere della Sera

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