Studio Milano-Wuhan su Covid e cuore con il supporto della fondazione De Gasperis: un marcatore di danno cardiaco – la troponina T – si associa a una maggiore mortalità quando aumenta anziché calare durante l’ospedalizzazione del malato di Covid 19 e quindi può essere usato per identificare i pazienti a maggior rischio.
Dalla collaborazione del dottor Enrico Ammirati, cardiologo del Cardio Center dell’ASST Grande Ospedale Metropolitano Niguarda, supportato dalla Fondazione De Gasperis; e i colleghi dell’ospedale Tongji di Wuhan in Cina, sono emersi nuovi dati sul ruolo del danno cardiaco come biomarcatore di rischio nei pazienti ricoverati per COVID-19.
La collaborazione con la dottoressa Chenze Li e con il professor Dao Wen Wang, conosciuti nell’Ottobre 2019 a Wuhan nel corso di un congresso internazionale ha portato alla pubblicazione sul Journal of Molecular and Cellular Cardiology di un articolo scientifico sul ruolo della troponina T.
Nello studio si è osservato che questo marcatore di danno cardiaco si associa ad un’aumentata mortalità qualora i suoi livelli circolanti nel sangue aumentino dopo 3 giorni dall’ospedalizzazione anziché decrescere, in particolare nei pazienti con condizioni più gravi.
Su un campione di 2068 pazienti ricoverati all’ospedale Tongji di Wuhan nel febbraio-marzo 2020 di un’età media di 63 anni; costituito da circa la metà da donne, il 23% dei pazienti erano stati ricoverati in gravi condizioni cliniche, infatti avevano necessità di cure in terapia intensiva. All’ingresso, di questi il 30% aveva evidenza di un’elevazione della troponina T.
La troponina T è un biomarcatore di danno cardiaco usato in particolare per identificare i pazienti con infarto miocardico acuto; ma che si è rilevato un potente marcatore di prognosi nei pazienti ricoverati per COVID-19.
Infatti, il 77% dei pazienti che non aveva avuto necessità di terapia intensiva durante il ricovero, all’ingresso avevano un’elevazione della troponina T solo nel 2%.
A rimarcare il forte potere prognostico della troponina T si è osservato che nei pazienti critici, che purtroppo moriva durante il ricovero rispetto a chi sopravviveva; si è osservato che chi moriva aveva un’elevazione della troponina T nel 45% dei casi mentre in chi sopravviveva nel 21% dei casi, altro dato altamente significativo.
Questo marcatore di danno cardiaco si è visto che entro 3 giorni dall’avvio delle cure nei pazienti che venivano ricoverati in terapia intensiva era aumentato nel 68% dei pazienti che sarebbero poi morti e nel 49% di quelli che sarebbero sopravvissuti. Il vero spartiacque però era costituito da dopo i primi 3 giorni di ricovero, dove si osservava che in chi sarebbe morto la troponina era aumentata ancora nel 69% dei pazienti contro il dato in netta discesa al 30% di chi sarebbe sopravvissuto.
Quantitativamente la mediana del valore di concentrazione nel sangue della troponina T era 117 pg/mL in chi moriva rispetto a 13 pg/mL in chi sopravviveva tra la quarta e la settima giornata di ricovero in terapia intensiva.
Interessante notare che i pazienti che non sono mai entrati in terapia intensiva perché in discrete condizioni cliniche, nonostante la presenza di una polmonite COVID-19; anche durante il ricovero mantenevano in genere valori bassi, con una mediana di valore di concentrazione massimo registrato tra 1 e 3 giorni dal ricovero pari a 6 pg/mL.
Altri dati emersi da questo studio sono stati che la troponina correlava con un importante marcatore di infiammazione come l’interleuchina 6; target del farmaco tocilizumab, spesso usato in questi pazienti nella prima fase epidemica del SARS-COV-2.
Sulla base dello studio dell’andamento di marcatori di danno cardiaco durante il ricovero e quelli dell’attivazione del sistema immunitario/infiammatorio si ipotizza che il danno cardiaco che porti al rilascio della troponina T sia legato a una cosiddetta cardiotossicità nonspecifica mediata dagli alti livelli circolanti di questi fattori dell’infiammazione chiamati citochine.
Altro dato di rilievo è stato osservare come l’elevazione della troponina T nei pazienti ricoverati in terapia intensiva si sia associato ad un maggior rischio di aritmie e di arresti cardiaci durante il ricovero.
“E’ importante sostenere questi studi e farlo in questo momento – commenta Benito Benedini, presidente della fondazione De Gasperis che sostiene il Cardiocenter di Niguarda -; cioè mentre l’Europa si prepara alla vaccinazione di massa ma il “nemico” è ancora in gran parte sconosciuto e non si deve ancora considerare vinta la guerra al COVID-19″.
Spiega il dottor Ammirati che: “Questi dati sono in linea con le prime pubblicazioni apparse sulla rivista JAMA Cardiology a marzo 2020, ma forniscono degli ulteriori dati, di rilevanza della troponina durante tutto il ricovero dei pazienti con COVID-19. In particolare, consente di identificare quei pazienti che verosimilmente non stanno rispondendo alle cure come dovrebbero, perché la troponina T rimane alta.”
Quindi questa è la principale novità di questo lavoro. Inoltre, il dato è rafforzato dal fatto che sia stato dimostrato in un così ampio campione di pazienti. Va sottolineato che dall’inizio dei sintomi da COVID-19, che spesso era la febbre, e l’ospedalizzazione erano trascorse circa 2 settimane nella maggior parte dei pazienti studiati.
Pertanto, ricorda il dottor Ammirati, che “La troponina T non è un test utile da eseguire subito dopo un contatto con un portatore o un paziente infetto con SARS-COV-2, il virus che causa la malattia COVID-19, ma ha senso eseguirlo nei pazienti che sviluppano la polmonite.
Potrebbe ad esempio costituire un fattore che può determinare se decidere di ricoverare un paziente oppure no; oltre ad altri noti fattori come i livelli di ossigenazione del sangue, l’età avanzata, il sesso maschile o la presenza di multiple copatologie.”
Va ricordato che la validità del marcatore è stata confermata anche correggendo altre variabili di rischio; per cui il suo potere di identificare i pazienti a maggior rischio è da ritenere addizionale rispetto agli altri noti fattori di rischio.
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