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Massimo Randolfi

Testimonianze di infermieri, la storia di Gabrile Modeo

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Testimonianze di infermieri, la storia di Gabrile Modeo
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“Stasera vi riporto la toccante testimonianza di Gabriele Modeo, infermiere precario del reparto di rianimazione covid dell’Ospedale San Giuseppe Moscati di Taranto. Uno che nonostante lavori da 50 mesi nel SSN non rientra nei criteri della stabilizzazione” scrive su Facebook Mariolina Castellone,  portavoce del MoVimento 5 stelle al Senato.

“Quando parliamo di operatori sanitari precari a cui restituire un futuro dignitoso in cambio del sacrificio che gli è stato chiesto ci riferiamo a persone come lui. Grazie Gabriele” scirve e cita le parole dell’infermiere.

Quando ho varcato la soglia di Terapia Intensiva, l’11 aprile dello scorso anno, credevo di sapere a cosa stavo andando incontro. Faccio l’infermiere dal 2008 e Rianimazione è stato il reparto del mio primo incarico. Ho cominciato in quello stesso Ospedale: San Giuseppe Moscati di Taranto, oggi Hub Covid. L’impatto lavorativo è stato travolgente, adrenalinico. Vestirsi, bardarsi, disinfettarsi in maniera maniacale prima e dopo, sono oggi azioni meccaniche, di routine ma all’inizio mi confondevano. Può sembrare un dettaglio ma la vestizione è un mezzo fondamentale per proteggerci. L’organizzazione era ed è ancora strutturata a squadre: medici e infermieri, oss a turno, operano dentro le stanze dove si trovano i pazienti nella zona “sporca”, gli altri lavorano fuori nella cosiddetta zona “pulita”. Ho ritrovato il reparto che già conoscevo e in cui avevo lavorato per 3 anni, sottoposto ad una prova di forza enorme. Quando in pieno look down la gente ancora incredula cantava sui balconi e il Covid in città sembrava un pericolo lontano, lavoravamo con la paura di infettare noi e i nostri cari ma siamo andati avanti, sostenuti dalla gente, dai media, dalla voglia di vincere quel nemico invisibile.A quasi un anno di distanza e nel pieno della terza ondata, posso dire con certezza che il Covid 19 non ha risparmiato nessuno, nemmeno me che sono riuscito a non infettarmi mai e oggi sono vaccinato. Non ho mai visto un ospedale di guerra ma se chiudo gli occhi credo di aver vissuto e di vivere ancora quanto di più simile possa esserci. Mi capita spesso di sentirmi strizzato da questo vortice che è la Terapia Intensiva oggi. I pazienti arrivano da noi quando le principali funzioni vitali sono compromesse e hanno bisogno di cure intensive 24 ore su 24. Tutti i nostri sforzi professionali sono mirati a mantenere in vita le persone con ritmi incessanti e l’arrivo continuo in gravi condizioni, ha causato un fortissimo aumento di lavoro e un notevole impatto di pazientiemotivo e fisico su medici, infermieri e oss.La differenza nei momenti più difficili la fa il gruppo di lavoro. Il mio gruppo, il mio “turno” è fatto da colleghi speciali: abbiamo litigato, ci siamo supportati e confrontati, abbiamo imparato insieme a gestire questa situazione che ci è piombata addosso. Sono convinto che se anche solo uno di loro non ci fosse stato, sarebbe stato tutto più difficile. Siamo come una famiglia. È il caso di dire che riusciamo a parlarci e comunicare solo con gli occhi, del resto si vedono solo quelli.La cattiveria del Covid 19 è parte della malattia stessa che costringe all’isolamento e non permette la vicinanza delle persone care.Proprio per questo mantenersi empatici non è sempre facile. Lo scorso novembre è arrivato in reparto G. un ragazzo di poco più di 47 anni con una polmonite bilaterale da Covid. Aveva necessità di essere intubato, era stremato dopo giorni di ventilazione ad alti flussi, era terrorizzato, sapeva di star male ne era perfettamente consapevole. Ero stato in stanza con lui insieme ad un collega e poco prima di essere intubato, G. cercava i miei occhi, come a voler essere rassicurato, calmato. Ho seguito da vicino i suoi progressi, i suoi alti e bassi e quegli occhi li ho portati con me per giorni, a casa, in macchina, a letto prima di addormentarmi. G. non ce l’ha fatta. Il nostro lavoro è questo, lo sappiamo ma oggi più che mai ne avvertiamo il peso e la fatica. Non mi sento un eroe, non lo sono. Sono lo stesso infermiere di un anno fa solo che oggi so cosa significa essere in prima linea. La morte vive al nostro fianco, giorno e notte. Siamo esposti costantemente a una situazione di sofferenza. Conviviamo con l’impotenza e il senso di inadeguatezza perché vorremmo fare più di quanto possiamo ma nonostante tutto, continuo ad essere motivato e a mantenere alta l’attenzione. Quando tutti ci fermeremo e, si spera, il Covid sarà un problema superato almeno in parte, ci renderemo conto dell’impatto globale di tutto questo anche su chi ancora oggi si ostina a negare l’esistenza del virus.

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