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Dal pronto soccorso alla Centrale operativa del 118: l’esperienza di un infermiere che ha scelto di cambiare

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Dal pronto soccorso alla Centrale operativa del 118: l'esperienza di un infermiere che ha scelto di cambiare
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Riceviamo e pubblichiamo il contributo di Vito Riccardi, nostro lettore, che lancia un appello affinché tutti possano utilizzare il numero del servizio di emergenza-urgenza in modo corretto.

Il periodo storico può aver influito, senza alcun dubbio, ma non è il solo motivo che mi ha convinto a uscire dalla mia comfort zone: il pronto soccorso. È successo tutto per caso. Il fattore Covid mi ha colpito come solo la bora potrebbe fare, sferzando il viso di uno sprovveduto a Trieste. Di lì è cambiato tutto. A forza di lottare contro i mulini a vento, mi sono sentito inerme, stanco, svuotato dei miei stimoli.

Come quando, dopo aver dato tutto in campo durante una partita, sei sotto nel punteggio dall’inizio. Per dirla in termini da scommettitore, particon l’handicap e ne esci comunque sconfitto, avendo preso una caterva di gol, nonostante tu abbia dato l’anima. Ecco per me è stato proprio così. Io che amo incondizionatamente il pronto soccorso, con tutte le sue sfaccettature: le lische di pesce in gola, le coliche renali, gli stemi, le addominalgie dopo abbuffata al ristorante… Tutto, amo tutto, ma mi sono ritrovato a sentire il peso di quel posto.

Leggevo recentemente che il pronto soccorso è il posto più bello per un infermiere. Sono gusti, il pronto soccorso non può starti simpatico: lo odi o loami; non conosce mezze misure. Infatti io lo amo, ma il mio è un vero e proprio rifiuto, è una sensazione strana. Come quando mio padre mi costringeva a mangiare i carciofi. Io li odiavo, ma dovevo mangiarli. Masticavo, masticavo, ma non andavano proprio giù.

Negli ultimi due anni ho masticato il pronto soccorso, ma non riuscivo a buttar giù il boccone. Così mi son deciso: ho lasciato il mio posto sicuro, la mia zona confortevole, quella zona dove sapevo cosa fare e come farlo, sapevo dove mettere i piedi e le mani. Non è stata una decisione facile: non ho dormito per alcune notti, non sapevo se stavo facendo la scelta giusta oppure la vita mi avrebbe fatto scacco matto. Ero nervoso, irascibile, demotivato. Ma una mattina ho deciso. Ho deciso provare una nuova strada, una strada che non conoscevo, completamente nuova per me: la Centrale operativa del 118.

Tabula rasa, si riparte da zero. Mondo nuovo, zero contatto fisico con i pazienti, tre monitor, una tastiera, un mouse e una cuffia che ti mettono in comunicazione con chi ha bisogno. Devi proiettare la scena in base a quello che ti raccontano, non puoi chiudere gli occhi e immaginare. Gli occhi li devi tenere fissi su monitor, cartografia, riepilogo emergenza, motore di ricerca, geolocalizzazione. Con la testa devi immedesimarti nella scena dell’evento, capire cosa succede in 90 secondi. Chi ha bisogno urla non ricorda l’indirizzo, parla molto velocemente, sbraita: “Mandatemi un’ambulanza, sta male!”.

Cerchi di capire, proietti la scena nella tua mente, fornisci istruzioni su come gestire la criticità mentre arriva l’ambulanza. È tutto racchiuso in 90 secondi. Vorresti essere lì, fare qualcosa di più, tendere la mano durante quel massaggio, sostituirti a chi sta cercando di fare qualcosa mentre arrivano i soccorsi. D’altronde se abituato “all’azione”, in pronto soccorso.

Piano piano inizi a capire dinamiche, patologie, burocrazia. Inizi a conoscere nuove città, nuovi comuni, nuove località, nuove frazioni, lidi, sentieri. Tutto da dietro un monitor. Non ci sono modi per imparare tutto. Non ci sono libri o linee guida, ma soltanto esperienza. E così cerchi di dare fondo alla tua, diesperienza, seppur minima, per fare del tuo meglio, provando a raggiungere un’empatia che è difficile da centrare attraverso una cuffia che ti collega al mondo esterno.

“Pronto, non respira, non risponde, correte!”. Voce ferma, voce che deve dare sicurezza e cercare di tranquillizzare: “Se mi ascolta e segue quello che le dico, proviamo a far qualcosa per aiutarlo”. Durante l’RCP fai partire una videochiamata. Se c’è la possibilità ,correggi i movimenti, inciti, sostieni, supporti. “Sono in autostrada, c’è stato un incidente, non so altro perché sono passato oltre”. Invia un messaggio sul telefono, cerca di localizzare il target, chiedi se ricorda l’ultimo ponte numerato che ha visto, l’ultimo svincolo che ha superato o l’ultima area di servizio.

A volte riesci a gestire bene la telefonata, a volte meno. C’è chicollabora e chi inveisce, c’è chi riesce a spiegarti tutto per filo e per segno, e chi urla: “Io pago le tasse! Voi dovete mandarmi un’ambulanza”. Oppure: “Ma quante domande, mi mandi un’ambulanza e basta! Mi sta facendo il terzo grado!”. Senza sapere che, più informazioni vengono fornite, maggiore sarà la nostra capacità di valutare in maniera accurata il supporto da fornire e il mezzo da inviare.

Di notte c’è chi ha solo bisogno di sentire una voce che lo consoli o chi ha bisogno davvero, chi crede che arrivando in ospedale con l’ambulanza si possano saltare le code, utilizzando un servizio di emergenza urgenza al pari di un taxi sanitario. In centrale non puoi fermarti alle parole che ascolti, ma devi leggere tra le righe. Assumi le sembianze di un pezzo di pasta modellabile: a ogni telefonata, a ogni richiesta di aiuto, devi plasmarti in base al tuo interlocutore, ma non devi mai, mai sottovalutare nulla.

Capita che tu ne esca vincitore o vinto, ma ogni telefonata è un mattoncino che serve a costruire la casa di esperienza in cui puoi rifugiarti sempre più spesso. In centrale devi dare fondo a tutte le tue capacità. Quelle capacità che io non credevo di avere fino a ieri e che ancora oggi non ho del tutto. Ma sto cercando di fare del mio meglio per acquisirle nel minor tempo possibile.

Quindi, quando chiamate il 118, sappiate che dall’altro lato del telefono c’è un professionista che sta cercando di fare del suo meglio per aiutarvi e supportarvi. Non inveite, non sbraitate, cercate, per quanto possibile, di mantenere la lucidità che ci permetterà di aiutarvi. Siete i nostri occhi e le nostre mani: noi, senza di voi, siamo inermi, e voi, senza di noi, siete disarmati.

Il 118 non sostituisce il medico di base o la guardia medica, che, oberati di lavoro, soprattutto in questo periodo di pandemia, possono talvolta non rispondere immediatamente alle vostre telefonate. Il 118 non è una scorciatoia per accelerare i tempi di attesa. Il 118 non è un numero da chiamare per sfogare rabbia e frustrazione quando non trovate risposte rapide e confacenti alle vostre pretese dopo autodiagnosi su “dottor Google”. Il 118 c’è sempre, è sempre a nostra disposizione: utilizziamolo con criterio e giudizio.

Noi lavoriamo contro il tempo, e magari, mentre qualcuno chiama perchè ha sbattuto l’alluce contro il lettino in spiaggia e pretende un’ambulanza per essere accompagnato in pronto soccorso, potrebbe esserci qualcuno che ha bisogno di un’ambulanza per un infarto, un ictus o una qualsivoglia patologia tempo-dipendente. Se oggi chiamate il 118 per una necessità che non abbia carattere di urgenze ed emergenza, domani potreste averne realmente bisogno e l’ambulanza sarà occupata a “soccorrere” una distorsione al polso in un ragazzo di 18 anni, che avrebbe potuto essere accompagnato in pronto soccorso dai genitori o dagli amici con cui stava giocando a calcetto.

Pensateci, in gioco c’è non solo la vita di chi sta male, ma anche lavita di un autista, di un infermiere, di un medico che percorrono stradine dissestate e nebbiose a 120 chilometri orari, o di un pilota e della sua equipe che si alzano in volo con un elicottero per raggiungere più velocemente il luogo interessato e centralizzare nel minor tempo possibile il paziente. A casa hanno figli e mogli che li aspettano dopo 12 ore in turno, e non meritano di rischiare la vita senza che ce ne sia la reale necessità. Pensateci, sono tre numeri. Tre numeri importanti che possono fare la differenza tra la vita e la morte. Non sottovalutateli. Non sottovalutateci. Se impariamo a usarli nella maniera più corretta, ne trarremo beneficio tutti.

Vito Riccardi

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