Frequentemente l’opinione pubblica associa il termine dottore esclusivamente alla professione medica. In realtà questo titolo accademico spetta ad ogni laureato italiano. Pertanto è giusto che gli infermieri laureati siano identificati come dottori almeno nei rapporti interprofessionali?
Molti infermieri sostengono di non aver diritto al titolo poiché la loro é solo una “mini laurea” ma, anche se di fatto analizzando i contenuti del corso di laurea in infermieristica potrebbe sembrare eccessivo l’utilizzo di tale titolo accademico, anche l’infermiere laureato é un dottore.
In Italia, confermando un regio decreto del 1938 che attribuisce il titolo di dottore ai laureati (tenendo presente che fino al 1980 la laurea era il massimo grado accademico in Italia) il D.M. 270/2004 ed una serie di sentenze della Corte dei Conti ha definitivamente stabilito le diverse specificità della qualifica di dottore corrispondenti ai relativi livelli di studio universitari.
Il titolo di Dottore, secondo il D.M. 270/2004, spetta ai laureati che abbiano conseguito una laurea di durata triennale o un diploma universitario della stessa durata (Legge n. 240/2010 art. 17 comma 2 Riforma Gelmini). Il titolo di Dottore magistrale spetta a chi abbia conseguito una laurea specialistica/magistrale di durata biennale o una laurea specialistica/magistrale a ciclo unico della durata di cinque anni o sei anni nel caso di medicina e chirurgia e odontoiatria e protesi dentaria, nonché a tutti i laureati del vecchio ordinamento sia che la durata della laurea fosse di quattro o di cinque anni, e il titolo di Dottore di ricerca (dott. ric.), infine, spetta ai titolari del dottorato di ricerca, che si consegue a seguito di corsi almeno triennali dopo il conseguimento di laurea magistrale.
Il dottorato di ricerca è un titolo affine agli anglosassoni PhD (Philosophiæ Doctor o Doctor of Philosophy), Ed.D. (Doctor of Education), D.A. (doctor of Arts), D.B.A. (doctor of Business Administration), D.M.A. (Doctor of Musical Arts) e simili.
In sintesi il sistema universitario italiano prevede tre livelli di istruzione:
- la Laurea triennale, al termine della quale si diventa dottore (dott. o dr.) che permette di lavorare sia in enti pubblici che privati;
- la Laurea magistrale (di durata biennale) o la Laurea specialistica a ciclo unico (di cinque o sei anni) al termine delle quali si diventa dottore magistrale (dott. mag.) e che permette l’insegnamento in scuole primarie e secondarie sia pubbliche che private:
- il Dottorato di ricerca (di durata almeno triennale, retribuito in caso di vincita di borsa e a volte comprendente anche attività di docenza) al termine del quale si diventa dottore di ricerca (dott. ric.). Il conseguimento del terzo livello è corsia preferenziale per l’insegnamento universitario.
Pertanto ogni infermiere laureato può e deve ottenere il riconoscimento del proprio titolo accademico.
D’altro canto parrebbe davvero strano e grottesco sentire il termine “dottore” associato al professionista che in reparto svolge molte mansioni domestico alberghiere a causa delle carenze organizzative: vi immaginate il paziente che chieda “Dottore mi può portare la padella?” oppure “Dottore, potrebbe cambiare il canale della televisione?”
Credo che tra questa descrizione estrema e la realtà descritta dalle leggi esistano però delle sfumature: per quale motivo l’infermiere ha l’abitudine di presentarsi con il solo nome di battesimo? Non sarebbe più professionalizzante utilizzare almeno il nome e cognome? Qualcuno ha mai sentito un avvocato presentarsi al proprio cliente con il solo nome di battesimo? “Buongiorno, sono l’avvocato Mario”.
Credo che l’immagine che ogni infermiere dia di se stesso e della professione che rappresenta parta anche dal modo di porsi con il paziente. Sarebbe più opportuno pretendere il titolo accademico nei rapporti interprofessionali a partire dalla corrispondenza che riceviamo dalle aziende ospedaliere per cui lavoriamo e dall’Ipasvi stessa che dovrebbe rappresentare e tutelare la professione, ma che molto spesso invia raccomandate con l’acronimo “IP” seguito da nome e cognome.
Mi lascia perplesso anche il desiderio di censura del proprio nome e cognome sui tesserini di riconoscimento di molti colleghi che lavorano nei reparti. Vedo cartellini anneriti in maniera artigianale, altri che riportano solo il nome di battesimo. Anche i referti di triage prodotti dagli infermieri di pronto soccorso, unica situazione nella quale venga svolta la funzione di pubblico ufficiale, spesso riportano codici numerici in sostituzione del nome e cognome dell’infermiere o il semplice nome di battesimo.
In reparto ci sono il professor dottor Tal dei Tali, il primario, il dottor Sempronio e poi c’è Mario l’infermiere. Tutti grandi luminari tranne l’infermiere che è Mario: il garzone del fornaio, il barista, il cameriere. Siamo noi che non ci facciamo rispettare. D’altronde non si capisce per quale ragione, se un’azienda chieda un titolo universitario per la partecipazione al concorso, poi si dimentichi dello stesso titolo una volta assunto il personale.
Sono certo che per molti questa diatriba possa sembrare banale o superflua e che i problemi della professione siano ben altri, ma a mio avviso tutto parte dalle piccole cose, ed il demansionamento costante a cui è sottoposto quotidianamente l’infermiere, il non riconoscimento sociale ed il non riconoscimento del titolo accademico di certo non aiuti la nostra professione ad evolvere.
Simone Gussoni
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