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Un’assistenza di qualità può essere erogata solo con un’adeguata dotazione di personale

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Un’assistenza di qualità può essere erogata solo con una dotazione di personale
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Proponiamo un nuovo, interessante contributo del nostro collaboratore dall’Inghilterra, Luigi D’Onofrio

Il governo dei sistemi sanitari in Paesi come l’Italia e il Regno Unito costituisce verosimilmente l’esempio di management aziendale più fallimentare degli ultimi anni. Non è una constatazione personale, ma un dato di fatto, corroborato da innumerevoli statistiche. Non risulta, infatti, che altre grandi imprese, a fronte di un costante incremento della domanda, abbiano paradossalmente operato continui disinvestimenti e contenimenti “a tutto tondo” della spesa, tradottisi in tagli dei servizi e riduzione della forza lavoro qualificata, con espansione di quella non qualificata.

Il prevedibile risultato di queste politiche è consistito in uno scadimento globale della qualità dei servizi ed in un palese incremento del livello di insoddisfazione dell’utenza, cui ha fatto seguito un logico reindirizzamento della domanda verso la concorrenza, ovvero verso la sanità privata.

In buona sostanza, nonostante i proclami e la propaganda, pare evidente, tanto in Italia quanto nel Regno Unito, un interesse lobbystico (chiamatemi pure complottista, se volete) a smantellare lentamente e progressivamente l’assistenza sanitaria pubblica e gratuita, in favore di quella mutualistica e privata.

In questo contesto, la forza lavoro infermieristica è stata – e continua ad essere – la vittima sacrificale predestinata. Tra salari ormai inadeguati al costo della vita, carichi di lavoro e turnazione asfissianti, crescendo di tensioni tra colleghi di lavoro e verso i pazienti, con conseguente aumento dei fenomeni di mobbing, bullying, violenze e burnout, in tanti fuggono dagli ospedali e smettono per sempre di indossare la divisa.

In una realtà, come quella britannica, in cui gli infermieri pure godono di grande stima e considerazione presso l’opinione pubblica, tanto che il nursing è sempre saldamente al primo posto, tra le professioni verso cui riporre fiducia (secondo il rapporto Ipsos MORI Veracity Index del 2017), desta perciò grande stupore e preoccupazione riscontrare un’incontenibile emorragia di abbandoni (33.000 infermieri solo nel 2017, 3.000 più dei nuovi iscritti nel registro NMC), cui fa da ovvio contraltare un numero di posti vacanti ai massimi storici (41.700, secondo dati rilasciati dall’NHS Improvement lo scorso Settembre, con un aumento di oltre il 10% dall’anno scorso [1]).

I dati destano ancora maggiore allarme in una prospettiva futura, considerando che il taglio alle borse di studio, deciso dal Governo Tory nel 2016, ha determinato un tracollo costante delle immatricolazioni ai corsi universitari di infermieristica in UK, che hanno registrato un complessivo calo dell’1.28% (un dato comunque meno drammatico del -17.6% nelle nuove domande di iscrizione, fatto segnare nel 2017). Che la quasi totale eliminazione delle borse di studio sia all’origine del ridotto numero degli aspiranti infermieri in Inghilterra (500 in meno quest’anno), lo evidenzia il dato contrapposto della Scozia, che invece non ha eliminato (anzi prevede di incrementare a 10.000 sterline l’anno entro il 2020 [2]) l’assegno universitario e vede numeri in ascesa, sia tra gli ammessi ai corsi di nursing (+4.3%, contro il -2.7% dell’Inghilterra), sia nei posti finanziati messi a disposizione (+10.8% per il 2018/19, il sesto aumento consecutivo).

Peraltro, in questa sede non voglio neppure considerare il concomitante disastro delle politiche di reclutamento di nuovi infermieri comunitari, che ormai affluiscono in poche centinaia di unità l’anno, in conseguenza dei severi requisiti di certificazione linguistica imposti e delle scellerate trattative sul Brexit, che martedì 11 dicembre vedranno disputarsi la partita decisiva nel Parlamento britannico.

Tuttavia, mentre la politica, con una mano, ha profuso un grande impegno ad ostacolare l’accesso alla professione infermieristica o renderne gravoso l’esercizio, con l’altra ha invece investito abbondantemente nell’individuazione di soluzioni “low cost” per colmare le vacanze organiche: mi riferisco, in particolar modo, alla recente istituzione della figura del nursing associate, perfettamente sovrapponibile, a quella dell’Oss specializzato di nostrana previsione (ancora rimasta solo sulla carta), in quanto abilitata, tra le varie competenze incluse nel framework, a somministrare autonomamente terapia orale, topica ed inalatoria.

I primi 2.000 nursing associates (ne seguiranno altri 5.000 nel 2020), dopo un percorso formativo teorico e pratico di un biennio, saranno pronti ad inserirsi nel mercato del lavoro inglese a partire dal prossimo gennaio, inserendosi idealmente, negli organigrammi aziendali, tra i già esistenti HCA (healthcare associates) e gli infermieri.

La scommessa sulla capacità di questa figura di supportare l’infermiere e di alleviarne la pressione del carico di lavoro è talmente alta che lo stesso NMC, l’organismo di regolazione della professione infermieristica in Gran Bretagna, ha previsto per gli associates l’obbligo di iscrizione nel Registro, subordinandolo agli stessi requisiti richiesti ai qualified nurses.

In aggiunta, per quanto ciò possa sembrare paradossale, lo stesso Nursing and Midwifery Council ha permesso ai datori di lavoro, all’atto della definizione dei livelli organici (staffing levels), di inquadrare i nursing associates trainees, ovvero gli apprendisti, non come personale in sovrannumero, ma come membri dello staff. Una concessione non prevista per gli studenti infermieri.

HCA, nursing associates, associate practitioner, auxiliary nurses, tecnici, nonché gli stessi studenti universitari e perfino i volontari (se ne contano ben 78.000 nel Regno Unito, un’autentico esercito) costituiscono un ampio ventaglio di operatori di supporto che, nella realtà britannica, stanno conoscendo una rapida espansione, rappresentando lo strumento privilegiato delle strategie di investimento di manager affamati di raggiungere target di efficienza, outcome assistenziali e rapporti personale assistenziale/operatori il più bassi possibile.

Numeri, insomma, da dare in pasto ad un’opinione pubblica sempre più esigente e critica. Numeri destinati a rassicurare, a dimostrare che i soldi dei contribuenti sono ben spesi. Ma è tutto oro quel che luccica? È possibile mascherare le carenze di personale infermieristico, tamponandole con ausiliari e figure di supporto a vario titolo, complice anche la fluidità delle competenze tra i diversi ruoli, come previsto dalla stessa normativa britannica (per cui un HCA che ha ricevuto un training aggiuntivo sarà abilitato, per esempio, all’esecuzione di prelievi ematici)? Evidentemente no.

Proprio in questi giorni, è salita alla ribalta delle cronache, non solo nel Regno Unito ma anche in Italia, la pubblicazione di uno studio condotto da ricercatori di diversi Paesi, coordinati da uno dei massimi esperti europei sul “safe staffing”, il prof. Peter Griffiths, dell’Università di Southampton.

Intitolata “Nurse staffing, nursing assistants and hospital mortality: retrospective longitudinal cohort study” e pubblicata il 25 Novembre sul British Medical Journal, la ricerca, incentrata sugli ospedali inglesi e mirata a valutare proprio l’impatto dell’arrivo dei nursing associates, giunge alla conclusione che, per ogni giorno in cui il livello di infermieri (Registered Nurses) è inferiore alla media, il rischio di mortalità aumenta del 3%, indipendentemente dal numero di addetti all’assistenza non qualificati.

In buona sostanza, il personale di supporto non può essere chiamato a sostituire le lacune organiche di infermieri: come logica conseguenza, per garantire un funzionamento efficiente e ed efficace del proprio sistema sanitario, i Governi devono investire, ancora più che in nuove tecnologie e riorganizzazione dei servizi esistenti, nella formazione di personale qualificato.

Lo hanno affermato gli stessi studenti inglesi, supportati dal Royal College of Nursing, che nelle scorse settimane di novembre, davanti alla sede del parlamento inglese, a Westminster, hanno manifestato per chiedere il ripristino delle borse di studio ed investimenti governativi per un miliardo di sterline, per finanziare l’educazione universitaria.

Lo hanno ribadito anche alcuni attivisti dello stesso RCN, i quali, in una lettera aperta ai dirigenti del sindacato, hanno contestato la scelta – adottata senza consultare i membri – di supportare in toto l’iniziativa “Join the hospital helpforce” del quotidiano Daily Mail, finalizzata a reclutare volontari per l’NHS, sostenendo che “la buona volontà non può sostituire medici ed infermieri”, né l’impiego dei volontari può costituire un pretesto, per permettere ai politici di evitare le loro responsabilità.

Senza un costante e adeguato flusso di infermieri in entrata, ogni sistema sanitario muore lentamente. Numerosi servizi ed unità, in tutto il Regno Unito, stanno progressivamente chiudendo o venendo centralizzati per mancanza di personale, costringendo i cittadini a lunghi spostamenti, per ricevere cure talvolta indispensabili.

Lo scorso 3 Novembre, il giornale inglese “The Guardian” diffuse la notizia della chiusura del servizio di chemioterapia dell’ospedale King George di Ilford, nell’Essex, dopo che quattro infermieri specializzati si erano trasferiti ed altre due erano entrate in congedo per maternità [3].

È la prima volta, nella storia dell’NHS, che un reparto specialistico chiude per mancanza di personale, in assenza di una precedente strategia di riorganizzazione aziendale. Speriamo – ma è lecito nutrire dubbi – che sia anche l’ultima.

 

Luigi D’Onofrio

 

[1] Denis Campbell, “NHS suffering worst ever staff and cash crisis, figures show” 19 Settembre 2018, su www.theguardian.com.

[2] Fonte: Scottish Government, “More support for student nurses and midwifes”,  09 Ottobre 2018, su www.gov.scot.

[3] Denis Campbell, “London hospital drops chemotherapy due to nursing shortage”, 3 Novembre 2018, su www.theguardian.com.

 

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