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Risolto il «caso» Giacomo Leopardi: non morì per depressione ma per una patologia genetica

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«Non era un depresso, non era uno sfigato come direbbero i ragazzi di oggi, non era affetto da malattia tubercolare ossea». Ad affermarlo è Erik Pietro Sganzerla, 68 anni, da venticinque direttore della Neurochirurgia dell’ospedale San Gerardo-Università Bicocca, riferendosi a Giacomo Leopardi.

Riaprendo un cold case avrebbe ricostruito la cartella clinica del poeta nel volume «Malattia e morte di Giacomo Leopardi»

Sganzerla non ricorda con esattezza quando sia nato il suo interesse per Leopardi:

«Di certo sui banchi del liceo Beccaria di Milano. C’era chi stava dalla parte di Manzoni e chi di Leopardi. Io non ho mai amato troppo Manzoni».

Negli anni successivi ha unito la carriera di neurochirurgo alla passione per la letteratura dell’Ottocento e al collezionismo di libri rari, analizzando le 1.969 lettere che compongono la corrispondenza dello scrittore.

Ha così potuto ricostruire le fas della malattia, dall’insorgenza dei primi sintomi fino alla loro evoluzione, arrivando a formulare una nuova affascinante ipotesi che smonta quella finora più citata di «Morbo di Pott» o spondilite tubercolare.

Erik Pietro Sganzerla

«Ho seguito un metodo di indagine squisitamente clinico — spiega il neurochirurgo —, ho analizzato i sintomi di cui parla nelle lettere tra cui disturbi urinari, deformità spinale, disturbi visivi, astenia, gracilità, bassa statura, disturbi intestinali e complicanze polmonari e cardipolmonari. Piuttosto che pensare a tante diverse patologie ho ricondotto questo quadro ad un comun meccanismo degeneratore».

Secondo il medico monzese, l’autore dei «Canti» e dello «Zibaldone» sarebbe stato affetto da una malattia genetica rara: la spondilite anchilopoietica giovanile che ancora oggi ha un’incidenza di 5-7 casi ogni 100 mila persone.

«Dalle lettere sappiamo che Leopardi non è nato gracile e gobbo, anzi il fratello Carlo lo descrive come un bambino vivace e leader nei giochi — spiega Sganzerla —. La deformità spinale, una cifosi dorsale, insorge dopo i 16 anni come si trova conferma nelle parole del marchese Filippo Solari che scrive di aver lasciato “Giacomino di circa 16 anni sano e dritto” e di averlo ritrovato dopo 5 anni “consunto e scontorto”».

I celebri sette anni di studio «matto e disperatissimo» trascorsi nella biblioteca paterna aggravarono ulteriormente la sua deformazione alla quale si aggiunsero i problemi della vista a fasi alterne, disturbi intestinali e complicanze cardiopolmonari che lo portarono alla morte a 39 anni, il 14 giugno 1837.

«Con tutta probabilità — conclude il medico — avvenuta per scompenso cardio respiratorio». L’indagine esclude soprattutto la diagnosi di «depressione psicotica» come riportano invece studi recenti.

«La sua malattia ha influenzato i tratti caratteriali, ma non si può certo parlare di depressione in un uomo che come Leopardi viaggiò molto fino alla fine dei suoi giorni, continuò a creare moltissimo. Aveva tanti progetti da realizzare ed ebbe sempre il coraggio di proiettare il suo sguardo oltre gli ostacoli».

Simone Gussoni

Fonte: corriere.it

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