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Regno unito e ritorno: l’emigrazione al contrario degli infermieri italiani

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Regno unito e ritorno: l’emigrazione al contrario degli infermieri italiani
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Perché molti colleghi rientrano in patria dopo un’esperienza oltremanica? Dipende solo dalla Brexit?

L’emigrazione all’estero è un fenomeno che ha coinvolto la categoria infermieristica italiana solo negli ultimi cinque anni, avendo come meta preferenziale dapprima il Regno Unito e poi, nell’ultimo biennio, la Germania, a seguito delle incertezze sulla Brexit. Proprio in ragione di ciò, in Gran Bretagna, dopo il periodo d’oro 2014-2015, il flusso si è fortemente ridotto e vede ora arrivare in terra d’Albione solo alcune decine di infermieri l’anno, nell’attesa che il Governo britannico e l’Unione Europea decidano come regolare i rapporti sulla circolazione dei lavoratori in entrata e in uscita.

Di certo, tuttavia, il numero dei professionisti italiani presenti oltremanica è ancora elevato e consiste in alcune migliaia. Come ogni onda ha il suo reflusso, era logico, al di là della Brexit, attendersi che l’esperienza fuori dai confini nazionali fosse passeggera e che tanti rientrassero nel Belpaese. Sarebbe però superficiale e grossolano, come purtroppo mi è capitato di leggere in commenti e articoli pubblicati finora, ridurre il fenomeno a una mera nostalgia “de lu paesello mio, col mare, lu sole e lu vento”, al richiamo di mamma e papà, oppure al disprezzo per il tè con il latte, la chicken pie e il clima piovoso del Regno Unito (che poi, in fondo, tanto uggioso e freddo non è, visto che quest’estate non è praticamente caduta una goccia d’acqua per tre mesi e si è arrivati a temperature anche di 36 gradi).

La componente psicologico-affettiva è sicuramente importante e incide pesantemente sulle scelte della popolazione infermieristica emigrata, in particolar modo sui giovani alla prima esperienza, ma non è certamente esaustiva. Così come la riapertura di un concorso pubblico nella propria terra è la classica rondine che non fa la primavera, considerata l’assoluta inadeguatezza degli stipendi in Italia, che rende ancora – ma è un parere personale – economicamente controproducente essere fuorisede entro i confini nazionali, piuttosto che vivere all’estero. Detto da uno che vive a Londra, eh…

Volendo comunque essere schematici, le cause dell’emigrazione “al contrario” possono essere riassunte in quattro macrocategorie.

1) LA CERTIFICAZIONE LINGUISTICA

La pongo al primo posto perché costituisce, a mio parere, il più grande ostacolo alla permanenza in Gran Bretagna. Dalla sua introduzione, nel gennaio 2016, le richieste di iscrizione al registro NMC sono crollate del 96% nel solo anno 2016-17, seguite da un ulteriore, drammatico calo dell’87% nel periodo 2017-18. Numerosi analisti, compreso il sindacato RCN, hanno collegato il dato alla Brexit, mentre io tendo a imputarlo ai rigidissimi requisiti richiesti per il superamento del test IELTS, ai fini dell’iscrizione al registro.

Un punteggio minimo di 7 in ognuna delle quattro prove dello IELTS è infatti superiore al livello di un madrepatria inglese, che è di 6,9. Non è un caso che, da novembre 2017, lo IELTS sia stato affiancato dall’OET, specifico per i professionisti sanitari e quindi, almeno sulla carta, più focalizzato sull’attività quotidiana di un infermiere e più abbordabile del primo test, in cui si chiede perfino la ricetta per preparare una marmellata.

Conseguire una certificazione linguistica con il punteggio richiesto dall’NMC non è proibitivo, ma certamente molto complesso. Lavorare nel Regno Unito senza aver superato lo IELTS o l’OET significa dover lavorare per lunghi mesi, anche più di un anno, come HCA, di fatto autodemansionandosi. Quando poi si falliscono una, due, tre prove, magari per mezzo punto, la demotivazione può sopraffare chiunque.

2) LE INCERTEZZE SUL BREXIT

È un dato di fatto che, ad oggi, i cittadini comunitari presenti dal Regno Unito, per un numero di anni inferiore a quello previsto per richiedere il passaporto britannico, abbiano una sola certezza dopo la Brexit: dover richiedere il pre-settled status, preliminare alla residenza permanente; una sorta di permesso di soggiorno a tempo indeterminato. Al di là di questo, gli scenari successivi all’uscita della Gran Bretagna dall’Unione Europea sono avvolti dalla nebbia più fitta, non per quanto riguarda le incertezze sulla domanda di lavoro (quella, anzi, è sempre elevatissima, visto che lo stesso allontanamento degli infermieri europei ha aggravato le già storiche carenze organiche, soprattutto all’interno dell’NHS), quanto sulla stabilità dell’economia britannica.

Trovo comunque insensato che il rientro in patria sia legato alla percezione di sentirsi “ospiti indesiderati”, come pure ho letto in alcuni editoriali di testate britanniche. Benché limitati (per fortuna) fenomeni di discriminazione, se non di aperto razzismo, si siano verificati e abbiano coinvolto anche membri della comunità infermieristica italiana, tanto che alcuni centri urbani e ospedali godono ora di pessima reputazione, il Regno Unito è stato e continuerà a essere molto più inclusivo, per gli emigrati, della stessa Italia.

3) LE DIFFICOLTÀ LAVORATIVE E DI CARRIERA

Il sistema sanitario britannico, in particolar modo quello pubblico, ovvero il celeberrimo NHS, non è tutto rose e fiori, anzi. È un mastodontico ingranaggio, che può frantumare ogni velleità e ambizione: carenze organiche permanenti, causa di turni spossanti e continue richieste di straordinari (peraltro ben pagati); demansionamento (sì, esiste anche quello, anche se molto meno marcato); gerarchie rigidissime; una burocrazia capillare e farraginosa anche per chi, come un italiano, vi è da sempre abituato; mentalità infermieristica devota al protocollo, la policy, talvolta in contrasto, ma giudicata prevalente persino in rapporto alle evidenze scientifiche.

Sono questi i principali “cazzotti” che si ricevono in faccia quando ci si scontra con il nursing britannico. Inutile comportarsi “da italiani” e lamentarsi rumorosamente. Un simile atteggiamento implica solo l’instaurarsi di un conflitto, talvolta insanabile, con colleghi e manager. Conflitto che, per quanto si sia dalla parte della ragione, può costringere a un allontanamento forzato verso un’altra struttura ospedaliera, poi magari a un’altra, fino a decidere per un rientro in Italia, maledicendo gli inglesi, che “non capiscono nulla di infermieristica”.

Per nostra fortuna, l’infermiere italiano è geneticamente dotato di un’innata resilienza che, nonostante qualche disavventura, gli permette di muoversi agevolmente tra le pieghe del sistema, comprendendone i meccanismi e sfruttandone le infinite opportunità di crescita professionale. La capacità di adattamento può solo aumentare, tra l’altro, se si è parte di una comunità, che l’associazione Italian Nurses Society si sta impegnando a creare da un anno.

4) LA COMPONENTE PSICOLOGICA

Va bene, mettiamo pure la ciliegina sulla torta. Le pressioni di fidanzato/a, mamma, papà, la nostalgia del paesello e degli amici, ma soprattutto il desiderio di una qualità di vita di cui ancora oggi riusciamo a godere in Italia, a dispetto della crisi economica, sono strattoni che ogni giorno – ogni giorno, credetemi – spingono anche il più motivato di noi a voler tornare nella propria terra. Il calore dei propri affetti non può essere facilmente rimpiazzato, nemmeno dalle ambizioni di carriera. Non è un caso che, nella mia esperienza personale, le coppie presenti nel Regno Unito abbiano prospettive di permanenza assai più lunghe, se non addirittura definitive, di chi invece si è mosso individualmente.

Si sa bene, tuttavia, che il desiderio di rimpatriare viene spesso bilanciato dalle deprimenti prospettive legate allo svolgimento della professione infermieristica in Italia. In parole povere, con uno stipendio di 1.400-1.500 euro mensili, un affitto che ne assorbe di per sé un terzo e prospettive di carriera e specializzazione in pratica azzerate, la decisione di essere “oriundi” è, in partenza, economicamente fallimentare. A meno che non si riesca a vincere un concorso pubblico nella propria città, arrivando così a massimizzare gli introiti (grazie al tradizionale sostegno delle famiglie italiane), ma soprattutto risolvendo il paradosso del tornare in patria per essere poi comunque un emigrato.

Più di ogni altra motivazione sin qui accennata, tuttavia, quella affettiva, proprio per la sua componente irrazionale, è la più rischiosa, in quanto capace di far propendere per decisioni azzardate, frettolose, prive di un qualunque “paracadute”. In buona sostanza, è proprio quando si ha nostalgia di casa, che si può arrivare a scegliere di tornare, ma senza avere un lavoro. Salvo poi pentirsene amaramente.

Luigi D’Onofrio
Italian Nurses Society

 

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