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Panda Rei di Laura Binello. TOCCAMI

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Panda Rei di Laura Binello. TOCCAMI
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E’ disponibile in tutte le librerie online il libro di Laura Binello, “Panda rei”

La medicina narrativa è in questo libro di racconti come una narrazione allo specchio dove sovente non è il paziente a raccontare ma l’infermiera che ne incrocia la storia, il destino.

Raccontare la malattia è diventato un approccio terapeutico consolidato, la medicina basata sulla narrazione restituisce al paziente la possibilità di elaborarne la sofferenza trasformandola in energia di cura.

Ma ci sono persone che non sanno scrivere, che non vogliono scrivere, che non possono esprimersi, parlare.

La loro sofferenza è come un grido muto che non trova sfogo e solo la sensibilità di chi sa leggere oltre le apparenze può essere lo specchio in cui riflettere la sofferenza inespressa.

Ecco che Panda rei entrando nelle case dei suoi assistiti entra in punta di piedi anche nei silenzi di chi non sa esprimere il dolore, tentando una via di comunicazione originale e densa di significati terapeutici.

Allo stesso modo Raccontare la malattia aiuta anche chi cura, a rielaborare il percorso terapeutico, offre nuovi orizzonti relazionali e di approccio assistenziale.

Un libro corale dove chi cura è anche chi è stato curato, racconti che fanno riflettere ma anche sorridere.

L’autrice, Laura Binello, ha saputo trasformare la passione giovanile della scrittura in un plus valore assistenziale che oggi celebra con l’uscita di un libro intenso da leggere tutto d’un fiato.

Panda rei è Disponibile su amazon.it


 

TOCCAMI

La prima volta che lo feci ero una studentessa di infermieristica, avevo 22 anni, ed ero al turno di notte in una divisione di chirurgia generale.

La paziente era una giovane donna mastectomizzata (asportazione di una mammella per carcinoma) da qualche giorno, avrà avuto 40 anni, era molto bella e molto pallida, piena di flebo e di drenaggi, suonò il campanello e io arrivai accanto al suo letto.

La giovane donna lamentava forti dolori al braccio destro, dallo stesso lato del seno asportato, le era stato infatti anche svuotato chirurgicamente il cavo ascellare e tutto il braccio appariva gonfio, edematoso, così come le dita della mano che apparivano gonfie e cianotiche. Sapevo di cosa si trattava, si chiama “linfedema”, è una raccolta sierosa che si forma nel torrente linfatico dell’arto operato, genera questo gonfiore spaventoso accompagnato da dolore e difficoltà alla mobilizzazione.

La terapia è il drenaggio manuale del liquido ristagnante, ponendo l’arto in posizione declive e favorendo, con massaggi leggeri la “spremitura” dei liquidi dalla periferia verso il cuore.

Non l’avevo mai fatto ma l’avevo visto in una lezione di nursing oncologico e proposi quindi alla signora se potevo effettuare un massaggio drenante. Lei annuì.

Avevo bisogno di un olio, così diceva la docente nella sua lezione, chiesi all’infermiera se aveva dell’olio di mandorle dolci, lo trovai e iniziai il massaggio.Iniziai dalla mano, che era gonfia come un palloncino, e nel momento stesso in cui toccai quella mano, nello stendere l’olio e preparare la pelle, ho subito avvertito una strana ma precisa sensazione: quella del passaggio di informazioni, così… da pelle a pelle.

La storia della persona che stavo massaggiando si andava dispiegando davanti a me, storia narrata in una maniera inusuale, e con un linguaggio a me ancora sconosciuto. Stavo aprendo, a mia insaputa, un nuovo canale di comunicazione, avevo l’opportunità di ingentilire il tocco di altri quotidiani gesti professionali dando voce alle parole di un corpo, un corpo sofferente, permettendomi un altro tipo di ascolto.

Nel silenzio prezioso di quel semplice massaggio, magari non perfetto e chissà mai se drenante davvero, avevo concesso a quella donna il tempo della presenza, della consapevolezza del gesto, e una simbolica solidarietà ed unione con la storia di sofferenza di quella persona.

Varcare il limite imposte dalle paure di un corpo sofferente mi permetteva di ricontattare l’umanizzazione di una relazione difficile, magari impossibile.

Ma avevo 22 anni e non lo sapevo allora, credevo e speravo di spremere dei liquidi stagnanti, invece stavo esplorando un territorio assistenziale e comunicativo che solo molti anni dopo avrei contestualizzato e utilizzato come modello di cura.

Quando anni dopo, parecchi anni dopo, mi proposero un corso sul massaggio terapeutico dissi che io a quelle belinate lì non ci credevo.

I malati non hanno bisogno di massaggi ma di assistenza mirata e di cure efficaci.

Ma siccome ero curiosa e avevo bisogno di un giorno di tregua lavorativa accettai di partecipare al corso.

Odio ferocemente quei corsi dove si fanno simulazioni psicofisiche, con esercizi corporali, dove ti scrivono sul modulo di vestirsi con tuta e scarpe comode, sento puzza di belinata lontano 1 km, quando poi ti fan sedere tutti in cerchio a terra e ti dicono di “prendere le mani del tuo vicino e chiudere gli occhi”… ecco, vorrei fare il mio solito turno lavorativo e mollare tutto.

Il mio vicino era un medico piuttosto anziano, seduto lì per terra mi faceva pure tenerezza, mi dicevo pensa un po’ questo qui che deve ancora fare per guadagnarsi la pagnotta alla sua età. Uno di fronte all’altro ci prendemmo le mani, ad occhi chiusi, come da mandato. Dieci minuti così, occhi chiusi, immobili.

Subito mi scappava da ridere, poi sentivo il calore delle sue mani, poi forse il sudore, mi prudeva la mano destra, forse lui stringeva troppo, forse stringevo io, forse anche lui penserà le stesse cose che penso io, che stringo troppo, che sudo, che sono ruvide….. Dieci minuti e poi basta, occhi aperti e mani libere.

E l’invito di raccontarci le emozioni vissute. Intanto la scoperta, inaspettata, che la persona seduta dinnanzi a me non era più sconosciuta, lo dicevano i nostri timidi sorrisi quando, aprendo gli occhi, ci siam ritrovati seduti uno di fronte all’altro come due persone che si conoscevano.

Il senso della reciprocità di quel contatto, seppur pilotato, ci metteva in una posizione di conoscenza e di rispetto. E poi la sorprendente scoperta di aver immaginato dentro a quel calore, quel sudore, quella morbidezza o ruvidezza….

Una serie di emozioni, di individualità caratteriali, di caratteristiche umane dell’altro.

E ricordai finalmente l’esperienza del passato con la giovane donna operata, e ricordai anche le sue parole al termine del massaggio: “Questo massaggio è la cosa più bella che mi sia successa in 3 mesi di iter ospedaliero, dalla diagnosi terribile all’intervento di tre giorni fa, le tue mani sono differenti, non hanno la fretta delle infermiere indaffarate, non hanno il timore delle studentesse insicure, le tue mani sono qui per me, mi concedono il tempo di accettare e sentire il mio corpo abbandonato alla malattia, grazie di questo tempo che mi dedichi, grazie di sentire il mio dolore e la mia paura”.

La storia racconta che poi negli anni questo massaggio terapeutico divenne un vero e proprio canale formativo supplementare denominato “Gruppo delle affettività delle cure infermieristiche”, piccoli e selezionati gruppi di infermieri curiosi che vogliono esplorare altri canali comunicativi, con l’ambiziosa mission di trasformare il paradigma cura=guarigione in cura = accompagnamento, con la piccola pretesa di curare senza per forza guarire, spogliandosi dalle sovrastrutture che la quotidianità impone.

La semplice pratica del contatto diventa così uno strumento operativo dell’assistenza nella sua quotidianità.

Vi assicuro una esperienza bellissima.

 

…tratto da Panda rei il libro

 

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