Rilanciamo un post pubblicato su Facebook dal collega Rino Negrogno.
Ieri guardavo con mio figlio un film a episodi su Netflix, ma a un certo punto, e sul più bello, la puntata è terminata, lasciandoci con una grande curiosità. “Peccato, dovremo aspettare fino a domani per sapere cosa accadrà”, dico sommessamente e rassegnato. Mio figlio afferra il telecomando, smanetta così velocemente da non farmi comprendere quali tasti abbia pigiato e, come d’incanto, comincia l’episodio successivo.
Guardo per un attimo mio figlio: è soddisfatto e si sente superiore a me, che arrendevole avrei atteso fino a domani. Ma intravedo anche altro. Intravedo la sua fretta, l’incapacità di aspettare. E questo mi preoccupa. Quando eravamo bambini le giornate trascorrevano nella lentezza dell’attesa. Dovevamo attendere un anno e forse più per sapere se Candy Candy avrebbe finalmente baciato il suo Terence, e gli episodi terminavano sempre, perfidamente, con l’illusione che qualcosa di inquietante sarebbe accaduto. Ma dovevi attendere il giorno dopo per restare nuovamente all’oscuro di tutto, con Terence dietro l’angolo e Candy Candy che ancora una volta non avrebbe svoltato da quella parte, per un pelo.
Mio figlio non ha la più pallida idea di cosa significhi aspettare. Ovviamente la colpa non è solo di Netflix. E’ anche mia, che per avere un giocattolo dai miei genitori dovevo aspettare la befana e lo ricevevo di notte, anche quando ero abbastanza cresciuto per comprendere che la befana non potesse svolazzare sopra una scopa. Anche perché a quei tempi c’era la guerra fredda, non era facile.
Io, come se fossi un Netflix qualunque, quasi per contestare quel dover ricevere il giocattolo da una finta befana, che per di più si degnava di aleggiare soltanto una volta all’anno, e peraltro in concomitanza con mia madre che lasciava la tavola imbandita per i defunti che sarebbero venuti a farci visita, ho sempre accontentato mio figlio e acquistato giocattoli in ogni occasione, anche quelle inventate. Mio figlio non sa dunque aspettare. Non deve andare all’indice per cercare un argomento, memorizzare la pagina e poi sfogliare il libro per cercarla. Basta sfiorare lo schermo del suo telefono e digitare l’argomento: è fatta. Non vi dirò cosa sia più giusto, perché non lo so. Probabilmente una via di mezzo. Sono soltanto preoccupato per quel ragazzino che si è lanciato dal decimo piano, e non soltanto per lui.
Redazione Nurse Times
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