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“Lunga Vita alle Infermiere e a chi si prende cura del prossimo”, elogio del giornalista Lorenzetto

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In un epoca nella quale la categoria professionale degli Infermieri viene sempre più bistrattata, le parole apparse nell’editoriale di Stefano Lorenzetto assumono caratteri del tutto straordinari.

Il giornalista ha dedicato un lungo articolo agli Infermieri, analizzando alcuni recenti episodi di cronaca ed allo stesso tempo raccontando come queste splendide persone siano sempre state al suo fianco, dal primo momento della sua vita fino ad oggi.

Riportiamo di seguito il testo in versione integrale:

So bene che nelle cronache non mancano casi in cui un operatore sanitario – medico o infermiere – all’improvviso deraglia e si mette a compiere atti nefandi: anziani uccisi con un’iniezione letale perché giudicati a fine corsa; pazienti violentate mentre sono in stato d’incoscienza dopo un’anestesia; selfie osceni in sala operatoria durante gli interventi chirurgici o addirittura all’obitorio, con le salme adoperate come comparse per macabre sceneggiate da postare su Facebook.

Un motivo in più per trattare la vicenda con la massima cautela: ci vuole niente a collocare dentro questo girone infernale la vita di una persona innocente fino a prova contraria. Anche se si resta allibiti nell’apprendere che il direttivo degli infermieri del Veneto è stato costretto a invocare la revisione del regolamento etico in quanto privo di riferimenti ai social network, visto che risale al 2009. A quel tempo la vergogna degli illeciti commessi con lo smartphone ancora non era sfociata nella barbarie odierna.

Le infermiere della mia vita erano tutti angeli, compresa quella che mi mise le mani addosso a pochi giorni dalla nascita.

Mi era stata diagnosticata una meningite e doveva praticarmi le iniezioni nella volta cranica. La prima puntura fu preceduta da uno strofinio troppo energico nella regione temporale destra, con un batuffolo di cotone imbevuto d’alcol. Mai più ricresciuti i capelli, in quel punto. Danno permanente, che tende a peggiorare con l’età. Avrei dovuto farle causa? Mi salvò la vita.

Passati 33 anni, capitò la stessa cosa al mio secondo ricovero d’urgenza, stavolta al City Park hospital di Città del Capo, in Sudafrica. Colica renale. L’infermiera, un donnone di colore, non riusciva a trovarmi la vena nell’incavo del gomito.

Dopo avermi fiocinato per quattro volte, al quinto tentativo sfregò furiosamente la parte finale dell’avambraccio con il solito fiocco disinfettante e infine, con tutta la sua forza, mi affondò l’ago nel dorso della mano sinistra.

Da allora, più ricresciuti i peli neppure lì. Immagino che gli inventori del Silk Epil non siano edotti della possibilità di raggiungere risultati così permanenti, in fatto di depilazione, con un metodo tanto semplice. Alcol al posto della ceretta, prendete nota.

Sono gli inevitabili incerti del mestiere. Nessuna attività umana ne è esente. Ma qui è accaduto qualcosa di ben più grave, è stata somministrata morfina a un piccolo ricoverato indifeso.

L’infermiera accusata nega ogni addebito. Il suo avvocato fa notare che il momento in cui si sarebbe compiuta la spregevole azione delittuosa è incompatibile con l’orario di servizio della sua assistita.

Alla quale andrebbe semmai riconosciuto il merito d’aver salvato la vita del bambino prematuro, ordinando al medico di turno, che di fronte a quella crisi respiratoria non sapeva dove sbattere la testa, di somministrargli subito il Naloxone, un farmaco che inibisce gli effetti degli oppiacei.

La vita in ospedale logora, brucia, sfinisce, anche se noi, estranei a quell’ambiente, non ce ne rendiamo conto.

A me fu ben chiaro una sera d’autunno di tanti anni fa, quando il direttore dell’Arena mandò nel mio ufficio un signore sulla cinquantina, dall’aspetto dimesso, dicendomi: «Provi a farlo scrivere, ha bisogno di aiuto». Lo sconosciuto aveva i capelli già bianchi, uno sguardo mite e le gote imporporate, come uno scolaretto alla prima interrogazione.

In questi frangenti mi affido al mio anemometro interno, che non misura l’intensità del vento bensì quella del cuore: conclusi all’istante che doveva trattarsi di una gran brava persona. Era timidissimo, imbarazzato. Per rompere il ghiaccio, gli chiesi che mestiere esercitasse. «Quello del camilliano», rispose. Era un sacerdote. Ma aveva smesso di farlo negli ospedali.

Proveniva da una modesta famiglia contadina, ultimo di 13 figli. Dopo il ginnasio, aveva scelto di studiare teologia. In seguito prese la specializzazione di assistente sanitario, che lo portò in vari ospedali del Veneto e della Lombardia. Ma poi era venuto meno alla missione ispiratagli da San Camillo de Lellis, fondatore dell’Ordine dei chierici regolari ministri degli infermi, e sembrava vergognarsene.

Negli atti del processo di canonizzazione del nobile abruzzese, ordinato prete dopo una vita dissoluta e morto eroicamente a Roma nel 1614, si leggono parole sconvolgenti sull’attitudine di de Lellis ad assistere i moribondi: «Stare ingenocchiato vicino a un povero infermo ch’aveva un così pestifero e puzzolento canchero in bocca, che non era possibile tolerarsi tanto fetore, e con tutto ciò esso Camillo standogli appresso a fiato a flato, gli diceva parole di tanto affetto, che pareva fosse impazzito dell’amor suo, chiamandolo particolarmente: “Signor mio, anima mia, che posso io fare per vostro servigio?”, pensando egli che fosse l’amato suo Signore Giesù Christo».

Anche il suo figlio spirituale che avevo di fronte era impazzito. Un grave esaurimento nervoso lo aveva costretto a recedere dall’impegno pastorale in corsia. A decidere per lui erano stati i superiori. «Vede, ogni quattro o cinque anni, noi camilliani veniamo distolti dal contatto con i malati, perché ci consuma», mi spiegò. «La sofferenza in cui viviamo immersi, 24 ore su 24, a un certo punto ci fa uscire di senno, dobbiamo desistere. Forse io ho staccato troppo tardi…».

Lo risentii a distanza di molti anni. Era diventato scrittore. Nel frattempo aveva ricominciato a occuparsi in forma privata dei malati, credo come massofisioterapista al servizio di quelli che non possono permettersi cure costose.

Ecco, quanti sono i seguaci laici di Camillo de Lellis che sbagliano o sbroccano perché sono esausti, gli si sono scaricate le pile, il loro fisico e il loro spirito risultano gravemente compromessi dall’immane fatica e dalle enormi responsabilità che questa professione comporta? Adesso li vogliamo persino laureati. Giusto.

Ma deve pur esserci un motivo se una larga parte degli infermieri del nostro Paese è rappresentata da persone che provengono da ben 142 nazioni.

Sono 38.000 sui 375.000 in servizio, oltre il 10% (diventano 1 su 4 nel Nordest e nel Centro e 1 su 3 nel Nordovest).

Chiediamocelo: perché gli italiani disdegnano la professione paramedica? (tale categoria professionale non esiste in Italia, n.d.r.) Che questo disinteresse abbia qualcosa a che vedere con i turni di notte e festivi, con i campanelli che squillano a tutte le ore, con le coperte intrise di pipì e di vomito, con le piaghe da medicare, con i corpi da lavare, con le padelle e i pappagalli da svuotare, con i culi da ripulire, con i morti da vestire?

Credo di comprendere che cosa possa scattare nella mente di un’infermiera, la quale, mentre deve badare a decine di culle termiche che racchiudono vite frangibili di neonati prematuri, è sottoposta allo stress di un pianto incessante, martellante, inspiegabile.

È la stessa reazione che coglie tanti bravi genitori e spesso sfocia nella sindrome da scuotimento.

Il piccolo viene scosso energicamente nel tentativo di calmarlo. Si tratta di una penosa evenienza che riguarda 25 neonati ogni 100.000. Nel 20% dei casi questo inconsulto maltrattamento finisce con un decesso. Quando non interviene la morte, in oltre la metà delle situazioni lo scuotimento ripetuto causa danni neurologici permanenti.

È peggio scrollare i neonati sino a ucciderli o è peggio tentare scelleratamente di sedarli con la morfina? Mi viene freddo persino a porlo, ma nella logica del male minore è questo, e solo questo, l’interrogativo non contemplato dalle leggi a cui il giudice dovrà rispondere.

Non vorrei essere dentro la sua toga, quel giorno. A me è capitato di ascoltare confessioni allucinanti, spaventose, di buonissimi genitori esasperati dal pianto dei loro figli appena nati. Una coppia di amici voleva farmi credere che, in casi del genere, un ottimo metodo di sedazione consiste nel passare rapidamente tre-quattro volte il capo del bimbo sul fornello, con il gas aperto (e il fuoco spento, per fortuna).

Non sarò io, comunque, a scagliare la prima pietra. Non ricordo di preciso che età avesse la mia primogenita quella volta in cui rincasai dopo una nottata elettorale che mi aveva trattenuto in redazione fino alle 2.

Forse meno di un mese: la mente rimuove i pessimi ricordi, ma la cronologia delle consultazioni politiche e amministrative no. So solo che il suo pianto per una colica gassosa particolarmente ostinata non mi dava requie, né servirono a placarla le gocce di Alginor e le ninne nanne della madre.

Sfinito com’ero, restava un unico rimedio: trasferire la culla in salotto, lontano dalle camere, e chiudermi le porte alle spalle, incurante dei suoi lamenti. È ciò che feci. Le ho già chiesto scusa varie volte. Lei ride. Eppure, a distanza di un quarto di secolo, ancora rabbrividisco per quel gesto, non riesco a riconoscermi nella persona che l’ha compiuto. Sarà questa, sino alla fine, la mia condanna.

Perciò, dopo aver dimostrato di non essere certo migliore di loro, dico alle infermiere, anche a quelle cui fosse capitata la disgrazia della testa che si scollega per un istante dal cuore: per me siete tutte buone, tutte brave, tutte sante. Vi bacio in fronte.


Si tratta sicuramente di una testimonianza di un non infermiere, estraneo alla realtà che quotidianamente gli Infermieri devono vivere. Non sono considera le sempre più scadenti condizioni contrattuali, lavorative e occupazionali che affliggono migliaia di professionisti.

Tutto sommato, in un’epoca nella quale è possibile leggere solamente notizie di malasanità e di presunti infermieri killer, il tentativo di dimostrare gratitudine alla categoria degli Infermieri deve essere apprezzato.

Simone Gussoni

Fonte: L’Arena

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