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Long Covid, due nuovi studi identificano i fattori di rischio

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Long Covid, due nuovi studi identificano i fattori di rischio
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Nuove informazioni sulla predisposizione a contrarre il coronavirus in forma grave e prolungata giungono dalle ricerche svolte negli Usa e in Svizzera.

Identificare in anticipo chi rischia di andare incontro a una malattia grave da coronavirus è sempre stata una sfida importante nella comunità scientifica, per poter intervenire in modo tempestivo con l’eventuale somministrazione di anticorpi monoclonali. Ma capire in anticipo chi soffrirà di long Covid, che nel linguaggio medico si chiama PASC (Post Acute Sequelae of Covid-19), è un ulteriore passo per aiutare quei pazienti che sviluppano sintomi debilitanti, che possono persistere per molti mesi, e che coinvolgono in media circa il 30% dei pazienti, e non per forza ospedalizzati.

L’ultima ricerca dell’ospedale Sant’Orsola di Bologna ha evidenziato che su 100 pazienti ricoverati il 60% ha ancora sintomi a due mesi dalle dimissioni. La percentuale si riduce al 40% (ma resta comunque elevata) sei mesi dopo aver lasciato l’ospedale. I sintomi più frequenti del long Covid sono fatica a respirare, debolezza e tosse, nebbia cerebrale, dolore toracico, tachicardia, disturbi dell’equilibrio, nausea o febbriciattola.

Ora due nuovi studi indipendenti hanno identificato i fattori di rischio che predispongono al long Covid. La prima ricerca è stata pubblicata su Cell da un team americano e ha individuato quattro diversi fattori di rischio: la presenza di autoanticorpi, il livello ematico di Rna virale all’inizio dell’infezione, la riattivazione del virus di Epstein-Barr, responsabile della mononucleosi e il diabete di tipo 2.

La seconda ricerca è stata invece pubblicata su Nature Communications da un team svizzero, che ha collegato al long Covid bassi livelli di alcuni anticorpi e la presenza di asma. Il gruppo di lavoro ha stilato anche un punteggio di rischio long Covid, in cui vanno inseriti i sintomi sofferti dal paziente per arrivare a un risultato basso, medio o alto.

Sebbene non esista una cura efficace per il long Covid, entrambi i lavori hanno lo scopo di capire, ma solo una volta che si è verificata l’infezione, chi è più a rischio, in modo da aiutare i medici a indirizzare i pazienti verso trial clinici che studiano le terapie per il long Covid e per organizzare con anticipo la riabilitazione. Un migliore controllo dell’infezione attraverso trattamenti anticorpali, antivirali e farmaci antinfiammatori può contribuire a ridurre il rischio, e anche i vaccini possono mitigare i rischi del long Covid.

Nello studio americano i ricercatori hanno seguito oltre 200 pazienti per due-tre mesi dalla diagnosi di Covid e hanno messo in evidenza un’associazione tra i quattro fattori di rischio individuati e la comparsa dei segni del long Covid, indipendentemente dalla gravità della malattia iniziale. Nello specifico, sono state seguite 209 persone di età compresa tra i 18 e gli 89 anni, risultate positive al Covid tra il 2020 e l’inizio del 2021, alcune delle quali sono state ricoverate in ospedale.

I ricercatori hanno svolto analisi del sangue e dei tamponi nasali all’inizio dell’infezione e nei successivi due-tre mesi.
Nel complesso è emerso che il 37% dei pazienti ha riportato tre o più sintomi di long Covid a distanza di due o tre mesi dall’infezione. Il 24% ha riportato uno o due sintomi e il 39% non ha riportato alcun sintomo. Fra i pazienti che riportavano tre o più sintomi, il 95% alla diagnosi del Covid presentava almeno uno dei quattro fattori di rischio identificati nello studio (la presenza di autoanticorpi, il livello ematico di RNA virale all’inizio dell’infezione, la riattivazione del virus di Epstein-Barr e il diabete di tipo 2). Il più frequente era la presenza di autoanticorpi, presente nei due terzi dei casi di Long Covid.

Passando alla ricerca svizzera, i ricercatori dell’Ospedale universitario di Zurigo hanno analizzato il sangue di pazienti affetti da Covid-19 e scoperto che bassi livelli di alcuni anticorpi erano più comuni in coloro che avevano sviluppato il long Covid rispetto ai pazienti che si sono ripresi rapidamente. La “firma anticorpale” ha permesso ai medici di capire se i pazienti avevano un rischio moderato, alto o molto alto di sviluppare malattie a lungo termine in base all’età, al tipo di sintomi sofferti e alla presenza o meno di asma.

Il team ha studiato 175 persone risultate positive al Covid e 40 volontari sani, valutati come gruppo di controllo. Per vedere come i loro sintomi sono cambiati nel tempo i medici hanno seguito 134 pazienti Covid per un anno dopo l’infezione. Gli esami del sangue dei partecipanti hanno evidenziato come coloro che hanno sviluppato il long Covid tendevano ad avere bassi livelli di anticorpi IgM e IgG3.

Quando il Covid colpisce, le IgM aumentano rapidamente, mentre gli anticorpi IgG aumentano nella seconda fase dell’infezione e forniscono una protezione a lungo termine. Fra coloro che erano leggermente malati, il 54% ha riportato sintomi per oltre quattro settimane, quota che sale all’82% fra chi si è ammalato gravemente.

Per stilare un punteggio di rischio long Covid gli scienziati hanno combinato la firma dell’anticorpo con l’età del paziente (indipendentemente dal fatto che soffrisse o no di asma) e i dettagli dei sintomi. Per confermare che il punteggio fosse utile gli scienziati hanno eseguito il test su un altro gruppo di 395 pazienti Covid seguiti per sei mesi.

Carlo Cervia, primo autore dello studio ha chiarito: «Il test non può prevedere il rischio di Long Covid prima dell’infezione perché sono necessari i dettagli dei sintomi per compilare il test, ma abbiamo visto che le persone che soffrono di asma con bassi livelli di IgM e IgG3 rischiavano maggiormente di andare incontro al long Covid».

Redazione Nurse Times

Fonte: Corriere della Sera

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