Fli e Clasta hanno ha messo a punto un documento per spiegare come risolvere eventuali difficoltà comunicative.
Il momento in cui il bambino sillaba “mamma” o “papà” è atteso con trepidazione dai i genitori. E se stenta ad arrivare, ci si chiede se ci sia qualcosa che non va. Per orientarsi, la Federazione Logopedisti Italiani (Fli), assieme all’associazione Clasta (Communication and Language Acquisition Studies in Typical and Atypical populations), ha messo a punto un documento in cui si indicano le tappe dello sviluppo da osservare, e soprattutto gli interventi possibili per risolvere eventuali difficoltà comunicative.
Spiega Tiziana Rossetto, presidente Fli: «Trenta mesi è il limite massimo entro cui va prestata attenzione agli indici predittivi di un possibile disturbo primario del linguaggio, valutando il vocabolario espressivo e la comprensione ma anche la situazione socioeconomica della famiglia, perché una condizione svantaggiata favorisce la persistenza di un eventuale difficoltà linguistica. Intorno ai quattro anni è consigliabile arrivare alla diagnosi, per poter intervenire al meglio».
Se fra i tre e i quattro anni ci sono sintomi (per esempio un lessico molto scarno o frasi estremamente limitate e incomplete nella struttura, deficit di comprensione e comunicazione o difficoltà nel produrre suoni che rendono il parlato poco intellegibile) è quindi opportuno rivolgersi a uno specialista del linguaggio per capire se qualcosa non va. È questa l’età giusta per arrivare alla diagnosi: prima dei tre anni l’11-13 percento dei bimbi ha un ritardo del linguaggio, ma nel 70 percento dei casi proprio intorno ai tre anni c’è un recupero e tutto rientra nella norma.
Sono i parlatori tardivi, che quasi mai poi hanno difficoltà concrete a scuola. Come specifica Rossetto, «la difficoltà ad acquisire la lingua a cui si è esposti è il più frequente disturbo del neurosviluppo in età prescolare: riguarda circa il 7 percento dei bambini, in prevalenza maschi, e può presentarsi con diversa gravità, a volte come incapacità a esprimersi in modo corretto; nei casi più difficili si riduce anche la comprensione del parlato».
Se i problemi persistono dopo i tre-quattro anni, la probabilità di un recupero spontaneo prima di arrivare alla scuola primaria è minima. Ecco perché la diagnosi di eventuali disturbi deve arrivare in questo periodo. «L’obiettivo è non riconoscere il disturbo troppo tardi, quando si è stabilizzato e può diventare più difficile da affrontare – aggiunge Anna Giulia De Cagno, vicepresidente Fli –. Esistono per esempio questionari che possono aiutare a capire se le tappe normali sono rispettate: il pediatra o il logopedista possono far rispondere i genitori a queste semplici domande già quando il bambino ha uno, due o tre anni. Osservare il figlio, considerarlo un “comunicatore attivo” fin da piccolissimo è fondamentale per cogliere i primi indizi di un problema. E se ci sono qualche oggettiva difficoltà e una diagnosi di disturbo del linguaggio, mai smettere di stimolare la comunicazione col piccolo: molti genitori tendono a parlare di meno se il figlio ha la diagnosi di un disturbo del linguaggio, ma questo crea danni aggiuntivi».
Intervenire con percorsi strutturati di è importante, ma l’accesso non è sempre immediato, e per i servizi di logopedia erogati dal Servizio sanitario nazionale le attese possono essere lunghe, come sottolinea De Cagno: «Anche uno o due anni, ma è un assurdo: intervenire presto significa spesso risolvere il problema in tempi brevi, rimandare implica agire su un disturbo che con i mesi si cristallizza e rischia di avere conseguenze peggiori, oltre che comportare terapie più lunghe e complesse».
Redazione Nurse Times
Fonte: Corriere della Sera
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