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L’Aquila 2009: il racconto di una collega

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Esattamente 7 anni fa, alle 3,32 si fermarono le lancette della città de L’Aquila, il terremoto si portò via la vita di 309 persone. Una scossa distrusse e danneggiò gran parte del capoluogo abruzzese, molti Comuni e frazioni circostanti provocando anche circa 1.500 feriti e 70 mila sfollati. La tragedia colpì duramente le popolazioni dell’Abruzzo, segnando un intero territorio e la vita di molte persone. Ma è la fase successiva quella dei primi soccorsi che vogliamo raccontarvi direttamente da chi ha vissuto quel momento.

Il racconto di NANNICOLA Rita, infermiera de L’Aquila ci riporta nei momenti successivi alla scossa di quella notte, testimoniandoci la difficoltà che seguirono per poter assicurare la giusta assistenza ai pazienti. Il racconto di una collega ferita dal dolore vissuto in quei momenti difficili. La resilienza della popolazione de L’Aquila che reagisce alla catasfrofe con forza.

…non ero in turno quella notte, ma il mio senso del dovere ha prevalso sulla famiglia. Raggiunsi il mio luogo di lavoro per dare una mano ad evacuare i trentasei pazienti del mio reparto Medicina interna1, nefrologia dove lavoro tutt’ora. C’erano tutti gli altri colleghi ognuno impegnato ad evacuare il proprio reparto. Una volta lì, con l’aiuto dei tanti volontari, dei ragazzi della squadra di Rugby de L’Aquila e tanti altri, con i miei colleghi abbiamo iniziato a tirar fuori dalla corsia ormai distrutta, ma che fortunatamente non aveva procurato alcun danno alle persone, tutti i pazienti presenti. Riuscimmo a far scendere alcuni per le scale piene di macerie, imbracati, in mezzo a lenzuola o coperte. Subito dopo iniziammo a buttar giù dalle finestre, materassi, lenzuola, cuscini, e tutto il necessario per adagiarvi i pazienti, tutto questo sotto le molteplici scosse di assestastamento che continuamente si susseguivano. Nel frattempo al Pronto Soccorso iniziarono ad arrivare i primi feriti ed i tanti cadaveri che pian piano vennero allineati in quelli che erano i Poliambulatori, per il riconoscimento. Si cominciarono a trasferire i pazienti o a mandare i feriti, in altri Ospedali. Venticinque dei nostri trentasei pazienti furono invece trasferiti in una sorta di infermeria situata nella caserma della Guardia di Finanza, a L’Aquila. Trascorremmo qui il pomeriggio e la notte, tra scosse e paura, ma cercando di sdrammatizzare per non creare ulteriore panico tra i pazienti già abbastanza provati. Alle ore 12 del 7 Aprile ci arrivò l’ordine di lasciare la struttura, perchè non più sicura. Quindi pazienti trasferiti con le ambulanze negli Ospedali limitrofi con posti letto ancora disponibili.

A quel punto ci comunicarono che potevamo tornare a casa ma rendendoci disponibili non appena fosse stato allestito l’Ospedale da campo.

Tornare a CASA? Quale casa? Le case erano tutte inagibili. Appena raggiunsi la mia famiglia, marito e tre figli, che avevo lasciato in un capannone in compagnia di altri parenti, mi sono lasciata andare ad un pianto dirotto da non potermi fermare, mi ritenevo fortunata perchè non avevo perso nessuno, la mia famiglia era lì con me. Dopo qualche giorno fui contattata, insieme ad altri miei colleghi, dal Capo Dipartimento per turnare nell’Ospedale da campo che la Protezione Civile aveva allestito. Questaa grossa tenda da campo ospitava trentadue pazienti con patologie prevalentemente mediche. Svolgevamo turni di dodici ore..dalle 8 alle 20 e dalle 20 alle 8. Questo ci permetteva di rimanere a CASA due o tre giorni consecutivi…è stato massacrante, tantissime le difficoltà, legate al reperimento farmaci, all’igiene del paziente, situazioni climatiche sfavorevoli e molto altro. Non c’erano WC chimici per i pazienti, perchè arrivarono molto tempo dopo, con tutti i disagi che potete immaginare!!

Tutto ciò è durato fino alla metà di giugno, per il reparto di medicina. Da giugno ad aprile 2010 abbiamo traslocato ben altre cinque volte fino ad approdare nel reparto dove siamo tutt’ora .

Siamo nel 2015 e il nostro Ospedale non è stato ancora completamente risistemato. Ci sono ancora alcuni servizi nei container, ma si va avanti. Ciò che mi rattrista di più di quanto accaduto è che nessuno ha speso una parola per noi, del modo in cui abbiamo lavorato, rischiando la vita ogni giorno! Molti di noi si sono ammalati sotto la tenda, dalla semplice malattia gastrointestinale, alla polmonite, alla tbc….ma nessuno si è accorto di nulla. La nostra voglia di andare avanti ci ha fatto superare ogni difficoltà, con la speranza che arrivi un giorno migliore anche per noi.”

Grazie Nannicola Rita per la tua testimonianza.

Massimo Randolfi

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