Riprendiamo da Avvenire la storia di una ragazza “rinata” e di una madre che le è sempre rimasta accanto.
La scienza e il buon senso le dicevano di non sperare: sua figlia Giulia era in “stato vegetativo irreversibile”. Viva, ma in un corpo inerte, lo sguardo ostinatamente fisso in un lontano nulla, la mente chissà dove, persa in quel mistero insondabile che sono la coscienza e il cervello. Ma Maura non sapeva che farsene, del buon senso: per andare avanti le serviva sperare contro ogni evidenza.
E così «facevo la pazza: continuavo a parlare con mia figlia come se fosse sveglia, la vestivo ogni giorno di tutto punto, scarpe comprese. E poi fiumi di profumi, creme idratanti per tenerla bella, non un compleanno senza la festa, con montagne di regali e di amici. Quando pioveva o nevicava la portavo all’aperto perché pioggia o neve le bagnassero il viso. Tutto purché succedesse qualcosa».
Ci sono voluti sette anni, sette anni di nulla assoluto. Finché Giulia, un giorno di febbraio del 2011, ha sollevato la sua mano e ha accarezzato la madre. «Era tornata, non ero stata pazza a crederci. Corsi in corridoio a chiamare i medici, ma non si capacitavano. Poi entrarono in stanza e cedettero, perché videro…».
Oggi Giulia Brazzo ha 30 anni e ci accoglie sorridente nella casetta in cui vive con la madre, Maura Lombardi, 57 anni, sotto la Basilica di Superga. Tra pareti violette, mobili in stile e cesti di lavanda, hanno ricostruito un angolo di Provenza, dove la vita ha ripreso a scorrere dal punto in cui si era interrotta quel 24 marzo del 2004, quando Giulia aveva 15 anni. Sa di Provenza anche lei, le unghie azzurre, i ricci raccolti in una fascia di seta che le circonda il viso (e nasconde perfettamente la parte di cranio mancante…).
«Io e il padre eravamo al lavoro, a casa c’erano i miei genitori – racconta Maura –. Giulia tornava da scuola con due amiche; nel pomeriggio sarebbero andate al canile per prendere un cane a nostra insaputa e si stavano organizzando, quando si è sentita male. Le amiche sono riuscite a trascinarla fino a casa, dove Giulia ha detto le sue ultime tre parole: “voglio la mamma”. Poi il blackout di sette anni. Era una ragazza solare, studiava allo scientifico con voti così alti che a fine anno la promossero lo stesso».
Un aneurisma scoppiato nel cervelletto aveva azzerato tutto. «Era troppo grave per operarla. Poi i medici del San Giovanni Bosco di Torino decisero che a 15 anni bisognava tentare…». Dodici ore di intervento, tante sacche di sangue, infine lo stato vegetativo, “irreversibile”. Seguiranno negli anni altri venti interventi, gravissime emorragie, ascessi cerebrali, violente infezioni batteriche, ma anche l’umanità di medici straordinari.
«Quando fu chiaro che non c’era più niente da fare, Giulia fu mandata agli Anni Azzurri di Volpiano. Una lungodegenza meravigliosa, ma troppo silenziosa. Così abbiamo dipinto di mille colori la sua stanza e vi abbiamo portato il caos – sorride Maura –. A spese mie ho voluto che ogni giorno con Giulia ci fossero una logopedista, una neuropsicologa e soprattutto un’esperta di shiatsu e riflessologia plantare».
Col senno di poi fu un’idea vincente: sua figlia vagava in un pianeta sconosciuto, non c’era modo di comunicare con lei. «Immagina che cosa significa vedere che tua figlia soffre, ma non poterle chiedere cosa le fa male. La riflessologa sembrava leggere oltre il muro del silenzio, aveva un feedback dei sintomi, ci azzeccava sempre». Al feedback emozionale, invece, pensava la madre: «Sempre in maniche corte, stavo a contatto di pelle come la mamma e il bimbo allo stadio embrionale, perché un figlio ridotto così diventa puro senso, non hai nient’altro, è cieco muto e sordo».
Maura e il marito erano fortunati a vivere in Italia, la Asl pagava la retta, ma per Giulia volevano di più, così vendettero la casa dei loro sogni. «La coppia non ha retto e ci siamo separati, ma il papà è sempre stato presente, la lavava tutti i giorni e la assisteva nelle notti. Io c’ero le mattine e le sere, al pomeriggio lavoravo; ho avuto datori di lavoro splendidi». E poi c’erano gli anziani, ospiti di un’altra ala della lungodegenza: loro tutti i giorni la portavano a spasso in giardino, e Giulia con la sua carrozzina era il bastone su cui si appoggiavano.
Il giorno del risveglio la mano di Giulia si è mossa sulla pelle della madre, ripercorrendo lentamente il suo braccio con una carezza inattesa. «Non credevo ai miei occhi e le ho chiesto di rifarlo. Quando i medici sono accorsi, Giulia girava di nuovo lo sguardo. È stato come avere un neonato, però abbiamo ricominciato. A quel punto tutti hanno capito che avevo avuto ragione per anni a dire che andava stimolata al massimo e le attività sono aumentate alla grande».
Trasferita al Cardinal Ferrari di Fontanellato (Parma), in due anni Giulia ha imparato a fare i primi passi, a parlare, persino a nuotare. E oggi può raccontare: «Degli anni di blackout non so nulla: dormivo. I miei primi ricordi dopo il risveglio sono stati mamma e papà. Sono una persona felice, anche se mi manca camminare e muovere la mano sinistra, però parlo e compongo in rima».
È la prima cosa che fece quando agli Anni Azzurri il dottor De Tanti, chiamato di corsa da Fontanellato per un consulto, doveva verificare il suo risveglio. Anche noi le chiediamo due versi sul suo nome e lei improvvisa: «Visto che con Giulia non c’è rima, la faccio col cognome e faccio prima!». Sogna che «J-Ax e Fedez usino i miei testi rap per le loro canzoni». Intanto partecipa alla Tourin Marathon: «42 chilometri in carrozzina». E con Fabrizio ha vinto l’edizione di Masterchef per disabili, «cucinando gli scialatielli al pesto».
Fabrizio è il suo fidanzato, uscito da uno stato vegetativo dopo un incidente in moto. «Lui però cammina bene. Ci amiamo e vorremmo creare una famiglia. Perché noi non dovremmo avere una nostra vita? Abbiamo fatto qualcosa di male?». È la stessa domanda di sua madre, che per comprare a Giulia la casa del futuro ha chiesto alle banche di farle un mutuo, proponendosi come garante. «Ma ti danno la possibilità solo se hai un figlio abile; se è disabile, ti negano persino un mutuo cointestato. Perché, quando non ci sarò più, lei dovrebbe finire in un ricovero? Non ha l’Alzheimer, è lucida, adulta e consapevole: perché per persone come Giulia non è prevista una vita?».
«Io ho mio stipendio – riprende Giulia (così chiama gli 800 euro di invalidità e accompagnamento) –, e con questo mi pago due collaboratrici, che alleggeriscono le fatiche della mamma. In particolare Erika, che ormai è una sorella». Maura ha scritto un libro, L’amore non toglie la vita, ma non giudica ciò che è avvenuto in casa Englaro: «Spesso nei sei anni mi sono chiesta se era giusto ciò che facevo, ma per fortuna non mi sono mai fermata. E sa perché? Giulia se n’era andata con quelle tre parole: “voglio la mamma”. Mi aveva chi sto di non abbandonarla». I fatti le hanno dato ragione.
Redazione Nurse Times
Fonte: Avvenire
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