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Il trauma vicario: un aspetto spesso sottovalutato

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Il trauma vicario: un aspetto spesso sottovalutato
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Proponiamo un contributo di Alessandro Aguzzi, laureato magistrale in Scienze infermieristiche e ostetriche, e Anna Sberna, infermiera e psicologa clinica-sessuologa.

È modo comune di pensare che chi svolge un lavoro come quello dell’infermiere, sviluppi l’abitudine alle emozioni originate da situazioni traumatiche. In realtà l’infermiere mette in atto strategie di adattamento quale il  distanziamento emotivo, che non  è altro che una  risorsa di coping sicuramente efficace per raggiungere l’obiettivo, e cioè fare nel migliore dei modi il proprio lavoro.

Questa strategia di adattamento diventa patologica, nel momento in cui l’operatore, non riesce più ad entrare in contatto con le emozioni suscitate dagli eventi traumatici. Gli infermieri che operano nell’ambito dell’emergenza, sono costantemente esposti a eventi traumatici che li sottopongono quotidianamente al rischio di “traumatizzazione vicaria”.   Questa indica la possibilità che un soccorritore, durante un intervento in contesti critici, di catasrofi o maxi emergenze, a causa del contatto con la persona traumatizzata, viva lui stesso il trauma.

La traumatizzazione vicaria, secondo Mc Cann I.L. e Pearlman L.A. (1990), modifica in negativo gli schemi cognitivi e le modalità di lettura del proprio lavoro e della realtà, a causa dei processi di empatia, immedesimazione e coinvolgimento emotivo con persone travolte da eventi ad altissimo impatto emotivo. I sintomi che ne scaturiscono sono diversi: depressione, stanchezza, irritabilità, sintomi psicosomatici, insonnia, ansia, affaticamento, fino ai problemi familiari.

Tutto questo può essere imputato ai neuroni specchio, una tipologia di neuroni la cui esistenza è stata rilevata per la prima volta verso la metà degli anni Novanta da Giacomo Rizzolatti e colleghi, presso il Dipartimento di Neuroscienze dell’Università di Parma. Essi, quando entriamo in relazione con qualcuno, ci permettono di comprendere ciò che sta vivendo, fino a condividerne la natura e l’intensità.

È stato dimostrato sperimentalmente che, quando osserviamo negli altri una manifestazione di dolore, si attiva il medesimo substrato neuronale collegato alla percezione in prima persona dello stesso tipo di emozione. Percepiamo quindi la stessa emozione. La reazione emotiva alla situazione vissuta è mediata dall’attivazione di una regione del sistema limbico, l’amigdala, localizzata nella porzione mediale anteriore di entrambi i lobi temporali.

L’amigdala è implicata sia nella valutazione del segnale emotivo degli stimoli sia nei processi di condizionamento emotivo: da essa all’ipotalamo, all’ippocampo (correlato all’amigdala nella valutazione emotiva delle informazioni, l’ippocampo permette la contestualizzazione spazio-temporale dell’esperienza, integrandola con le esperienze passate) e al tronco encefalico; di qui alle surrenali, che producono cortisolo e adrenalina, con effetti, a lungo andare, dannosi al nostro organismo. Ne consegue, quindi, la necessità di ricorrere a misure preventive di autosostegno come il defusing e il debriefing.

Il defusing consiste in una sorta di pronto soccorso psicologico, nel quale i partecipanti alle attività di emergenza, subito dopo l’esperienza vissuta, senza necessariamente la presenza di uno psicologo, si riuniscono per circa 20-40 minuti per confrontarsi sui pensieri e gli stati d’animo scaturiti dall’intervento stesso. Questa tecnica aiuta a ridurre l’impatto emotivo, permette di iniziare a rielaborare l’evento attraverso la condivisione e la possibilità di dare un significato all’evento stesso, generalmente incomprensibile e fuori controllo, rassicura sulle preoccupazioni e sulle reazioni sperimentate.

Il debriefing è invece un vero e proprio intervento psicologico-clinico, un intervento di soccorso emotivo ben strutturato. È costituito da uno o più incontri a cui gli operatori sono obbligati a partecipare, dove però possono anche solo ascoltare. Ha come obiettivo l’aiutare a comprendere e a gestire emozioni intense e a scegliere le strategie più efficaci per affrontare la situazione. Il debriefing si compone di 7 fasi, definite dal protocollo Mitchell:

  • La prima fase è un’introduzione all’intervento.
  • La seconda fase è quella in cui i partecipanti descrivono l’accaduto e l’esperienza vissuta .
  • La terza fase è quella relativa all’aspetto cognitivo dell’esperienza
  • La quarta fase, cosiddetta delle reazioni, interviene sul livello traumatico più profondo e consiste nella verbalizzazione delle reazioni emotive sperimentate durante e dopo l’evento.
  • La quinta fase ha lo scopo di normalizzare e rendere consapevoli i sintomi conseguenti alle reazioni emotive scatenate dal trauma.
  • La sesta fase consiste nell’insegnamento di tecniche di rilassamento e di gestione dell’emotività e dello stress.
  • La settima fase dà spazio a eventuali domande e aiuta i partecipanti a ritornare alla quotidianità.

Lavorando in contesti di sempre crescente responsabilità, sia assistenziale che gestionale, la formazione in materia psicologica dell’infermiere che opera nelle maxi emergenze e nelle catastrofi, diviene di fondamentale importanza, fino a rivestire un ruolo strategico nell’affrontare i problemi “post-evento”.

Diviene quindi indispensabile, inserire nelle equipe sanitarie e di volontari, che intervengono durante le catastrofi o le maxi-emergenze: personale formato e capace di gestire non solo le necessità psicologico-assistenziali delle popolazioni coinvolte, ma anche quelle delle squadre di soccorso che intervengono in tali e delicati contesti.

In conclusione, sarebbe auspicabile avere a disposizione personale infermieristico che sappia porre in atto la formazione sanitaria sul campo, e la formazione psicologica e di supporto. Avere quindi professionisti capaci di risolvere i bisogni assistenziali in emergenza e finiti i momenti “acuti”, sviluppare una forte attitudine a garantire la salute psicologica propria e delle squadre di soccorso. Tali prerogative non possono prescindere, oltre che da una formazione specifica, dalla capacità di poter interagire con altre figure professionali quali gli psicologi, in modo da sviluppare non solo meccanismi di difesa, ma vere e proprie “strategie” di resilienza.

Alessandro Aguzzi e Anna Sberna

 

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