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Il mio dolore invisibile: storie di infermieri nei reparti Covid

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Il mio dolore invisibile: storie di infermieri nei reparti Covid
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Mi alzo presto, faccio colazione in fretta, metto il solito jeans.

Salgo in auto, la strada la so a memoria, potrei farla ad occhi chiusi.
La solita fermata al termoscanner, passo il badge, entro in reparto.

Raccolgo i capelli in una crocchia, come tutti i giorni, da un anno ormai. Se potessero parlare, i miei capelli urlerebbero pietà.
Divisa, calzari, tuta, ffp3, copricapo, guanti, cerotti, guanti, occhialini, guanti, visiera. Specchio guardami! Manca qualcosa? C’è un millimetro di pelle esposta o sono pronta?

Avviso i colleghi: “sto entrando”.

Supero la prima porta, entro in zona grigia: un corridoio lungo e vuoto. Non c’è nessuno e non c’è niente, c’è solo il rumore della mia tuta di plastica che lo attraversa. È un silenzio assordante, è come un climax che mi porta da uno stato mentale all’altro. Lascio tutto dietro di me, perché ora sto andando in un’altra dimensione.

Supero la seconda porta. Ora sono in zona rossa. 

Adesso i suoni ci sono e li sento bene: saturimetri, pompe di infusione, ventilatori meccanici, flussi di ossigeno, telefono che squilla, campanelli, onde ECG, pazienti che chiamano, carrelli che scorrono, colleghi che parlano e passano da un letto all’altro. Sono completamente immersa nel reparto Covid, il resto del mondo è fuori.

Ieri c’era un posto letto libero. Oggi ne trovo due. Ah, qualcuno non c’è più. Controllo chi manca. Non c’è Raffaele, dov’è andato?

…Lo voglio scoprire davvero? Non è forse meglio rimanere in questa nuvola incognita, non sapere, ed immaginare che ci siano buone notizie?

Raffaele non ce l’ha fatta, mi avvisa il collega…

Lo sguardo passa dal mio collega alla finestra.. e rifletto.

Ieri hanno portato Nunzio in rianimazione, non so come sta ora. Due settimane fa hanno mandato lì Giuseppe. Ma poi ce l’ha fatta? È ancora lì?

Questo turnover è straziante, è un incubo. Finirà mai?

“Francesca” mi chiama il collega “vieni a darmi una mano” e ritorno alla realtà. Passano le ore, il turno prosegue, il lavoro continua. Tra tutti quegli allarmi, quei suoni, quei campanelli che a volte credo di non poter più sopportare, il tempo scorre.

Al letto X c’è Viviana, oggi non mi convince molto. Non convince nessuno, in realtà. 

“Vediamo se mantiene questi valori, poi decidiamo” dicono i medici.

Passano velocemente le ore, così tanto da non accorgermi di non essermi mai seduta un attimo per riposare. Il turno finisce. 

Saluto i miei pazienti e supero la prima porta: esco dalla zona rossa. Ritorna il silenzio. Le mie orecchie sono esauste, quasi fischiano. Il “resto” della mia mente che avevo messo da parte torna pian piano ad affollare i pensieri.
Vado nella stanza della svestizione e tolgo la bardatura. La svestizione è come un lento e sacro rituale, sempre uguale. Spesso mi piace paragonarla ad una coreografia di ballo tutta mia, per togliere nel modo giusto la mia armatura e non portare nulla con me oltre quella stanza. È un lento e coordinato movimento di mani, braccia, testa e piedi. Quando finisco, mi lavo il viso e le mani e mi osservo allo specchio: ma quando diventerò anziana avrò tutti questi segni sul viso o ne avrò di meno?
Esco dalla zona grigia, rimetto il solito jeans, dò un saluto ai colleghi. Passo il badge.

Salgo in auto, ma prima di partire, fisso il volante. Ripenso ai miei pazienti e scende un velo di tristezza.

Rifaccio la solita strada. Si, quella che potrei fare ad occhi chiusi, sempre lei. Torno a casa.
Tra una faccenda e l’altra penso a Raffaele, a Viviana, alla mia zona rossa. La giornata però continua, non posso e non voglio portare nella mia famiglia il dolore che provo quando mi soffermo troppo a pensare.

Molto spesso io e i miei colleghi ripercorriamo con i pensieri quello che succede in reparto, ripensiamo ai volti, ai sorrisi, ma soprattutto alle lacrime, alle storie di famiglie colpite da quel maledetto virus e completamente devastate. Sono cose che ci teniamo dentro – o almeno ci proviamo – che i nostri cari non meritano di percepire. Anche se intuiamo facilmente che i nostri occhi non riescono a celare tutto.

In fondo è meglio così, bisogna staccare da tutto ciò. Cambiare “aria”, diciamo, tra quei pensieri un po’ tormentati; dedicarci ad altro, al resto della nostra vita. Abbiamo bisogno anche noi di qualcosa che ci faccia stare meglio, come tornare a casa e vivere in quella piccola bolla felice di affetti e amore.

Quindi vivo la pandemia un po’ come un costante voltare pagina. Ogni sera metto un punto, e il giorno dopo mi affaccio ad una pagina bianca e capisco, strada facendo, cosa scrivere. Aspetto di vedere cosa succederà.
Chissà se Viviana sarà ancora al letto X.
Chissà chi arriverà, chi mi regalerà un sorriso, cosa imparerò. Chi avrà bisogno di me?
Chissà domani cosa succederà…

Però non vi nascondo che, ogni tanto, a casa ho l’impressione di sentire ancora tutti quei suoni del reparto. Mi capita di sentire un allarme, girare la testa nella sua direzione pensando per un attimo di essere in ospedale.
Ormai quei suoni sono nella mia testa, e non se ne vanno.
Così come tutti i miei pazienti.

Francesca Pia Biscosi

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