I dati annunciati da Arnaldo Caruso hanno aperto il dibattito tra virologi.
Il coronavirus si è davvero indebolito? Non dobbiamo temerne un ritorno nella sua veste più crudele? I dati annunciati dal professor Arnaldo Caruso, presidente della Società italiana di virologia, hanno già aperto il confronto tra esperti.
Massimo Galli, direttore del Dipartimento di Scienze biomediche e cliniche “Sacco” dell’Università Statale di Milano, in un tweet ha sottolineato l’importanza di un ampio studio cinese pubblicato sulla rivista Nature, secondo cui il microrganismo, dall’inizio dell’epidemia, non è sostanzialmente cambiato.
«Al momento le circa 30mila sequenze virali depositate nella banca dati internazionale dicono che il virus da dicembre a oggi ha subito pochissime e poco significative mutazioni – conferma Giuseppe Ippolito, direttore scientifico dell’Istituto nazionale per le malattie infettive “Spallanzani” di Roma –. Tutti gli isolamenti che abbiamo effettuato confermano questo trend. Ad essere mutate sono le condizioni ambientali: il numero degli infetti è diminuito, l’affinamento delle strategie di sorveglianza consente di individuare sempre più precocemente i casi positivi. Per valutare se il virus è cambiato ci vogliono studi su grandi numeri, che al momento non mi sembra siano disponibili».
C’è poi il vissuto dei medici, che per due mesi hanno visto i pazienti ammalarsi e morire. «Ancora oggi ricoveriamo dei novantenni, ma se la cavano con forme lievi, non rischiano la vita – dice Matteo Bassetti, direttore della clinica di Malattie infettive dell’Ospedale San Martino di Genova –. È una sensazione di pancia, ma basata su una quotidianità che a marzo e aprile è stata pesantissima e oggi è cambiata. Siamo in attesa di un dato scientifico che lo confermi. L’obiettivo di contenere l’epidemia è stato centrato, ma non dobbiamo abbassare la guardia».
Per Giorgio Palù, past president delle Società italiana ed europea di virologia e professore emerito all’Università di Padova, il dato preliminare presentato da Arnaldo Caruso – la scoperta di un ceppo virale con bassa efficacia replicativa – è «di grandissimo interesse», anche se «è scientifico solo ciò che è pubblicato». Inoltre, «per dimostrare che Sars-CoV-2 è effettivamente mutato, è necessario sequenziare il suo genoma e clonarlo in un cromosoma artificiale batterico per poter verificare le cosiddette gain of function o loss of function del virus». Quindi «servirebbero conferme di scarsa replicazione in altri pazienti».
Quello di Caruso è «un modello in vitro molto preciso», aggiunge Carlo Federico Perno, professore di Microbiologia e virologia all’Università di Milano e direttore del Dipartimento di Medicina di laboratorio all’Ospedale Niguarda, oltre che membro della Società italiana di malattie infettive e tropicali. E aggiunge: «E’ stato identificato un tipo di virus che uccide le cellule meno rapidamente rispetto ai ceppi circolanti nei mesi scorsi. Questo però non significa indebolimento del germe né della sua efficacia replicativa, ma solo della sua capacità di fare danno (effetto patogeno). Un virus che replica tanto non necessariamente è molto aggressivo, dunque è impreciso dire che Sars-CoV-2 si sta attenuando. È la malattia che è meno aggressiva, perché i pazienti vengono individuati e curati più precocemente».
Redazione Nurse Times
Fonte: Corriere della Sera
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