E’ grande il Pronto Soccorso del Cardarelli, quegli spazi immensi sono sempre pieni, zeppi di paure e disperazione; sentimenti che accompagnano chiunque realizzi di aver perso la salute, per un tempo brevissimo o per l’eternità.
E’ affollato ad ogni ora il pronto soccorso del Cardarelli, con le barelle “azzeccate” ma un posto per chi ha bisogno si trova; a volte su una scomoda barella ma, per la metropoli che lo circonda, è una certezza d’aiuto: il gancio in mezzo al cielo quando ci si accorge di star precipitando.
Ci sono odori strani in quel pronto soccorso, di detergenti e di sudore o di feci, vomito, piscio e di deodorante ma, soprattutto, c’è l’odore acre di disinfettanti e di farmaci, quegli odori che trasformano un edificio in ospedale.
Su quei pavimenti gli infermieri, il personale di supporto ed i medici si muovono con passi veloci, attraversando storie che toccano l’anima per chi è disponibile ad ascoltare: humus dove si cresce in fretta professionalmente tra imprecazioni, pianti, risate e pizze gustate fredde offerte con calda gratitudine da chi apprezza il lavoro di quelle divise stropicciate.
E’ apprezzabile davvero il lavoro di chi si muove in quello che qualcuno ha definito un girone dantesco, alcuni si intrufolano con l’inganno e; fingendosi reporter d’assalto, con la videocamera del proprio telefonino riescono a riprendere, come in uno specchio, soltanto la propria miseria umana.
Mancano spazi, letti, presidi e personale e, gli stolti, si scagliano contro quelli che; dopo l’utenza, pagano di più e sulla propria pelle queste carenze e criticità.
E’ antico questo vizio di rivoltarsi contro chi cerca di aiutare, la codardia dei pochi arroganti che si rivolge sempre contro chi è visto debole, aggredibile e con poca possibilità di difendersi: gli operatori sanitari.
Da anni esiste un gruppo Facebook: “i malmenati del pronto soccorso del Cardarelli”, nato per denunciare ma che, oramai, vive in una sorta di rassegnazione. L’esistenza di questo gruppo, per gli eventi che vi si riportano; è una sconfitta sociale, non degno di una sanità del terzo millennio in una città occidentale.
Il Covid19 ha ingigantito le difficoltà ma ha moltiplicato gli entusiasmi di chi si è trovato, in prima linea a combattere una guerra che nessun altro avrebbe combattuto in sua vece.
Ed hanno dato il meglio, cercando di essere presenti sempre, pochi disertori, tanti vittima del virus. Non c’è il tempo per asciugarsi gli occhi e la sorte di colleghi sfortunati deve essere metabolizzata in fretta. E c’è finalmente la speranza che qualcosa cambi, il mondo sembra finalmente accorgersi di quanto sia importante una sanità efficiente; la politica sembra decisa a investirvi quelle somme che, negli ultimi decenni, le sono state sottratte.
Poi arriva la notte più buia, le cronache ci raccontano che un’infermiera, Loredana, viene aggredita da persone che, di umano, avrebbero solo i nomi sui documenti. Su di lei si accaniscono; cercando addirittura di cavarle gli occhi, procurandole ecchimosi, ematomi, fratture costali e soprattutto danni emotivi che non trovano spazio nel referto.
La stessa Loredana, una ventina di anni fa, sempre senza motivo, aveva subito analoga aggressione e, incinta, aveva perso il bambino.
Accade però che molti infermieri sentono che è stato toccato il fondo, decidono di non starci, di farsi sentire, di sensibilizzare l’opinione pubblica su queste violenze che vedono le vittime sconfitte da una costante mancata condanna dei carnefici.
Se qualcuno, senza motivo, aggredisce una persona per strada seviziandola e procurandole fratture, verrà chiamata a rispondere della sua violenza ed a pagare: si chiama giustizia. La stessa giustizia che, malgrado una legislazione recente abbia generato ottimismo, viene negata ai sanitari.
Così i colleghi del pronto soccorso del Cardarelli scrivono il proprio disagio; la loro richiesta di essere difesi e di avere condizioni di lavoro se non ottimali, almeno accettabili.
Lo scrivono con molta semplicità su un pezzo di carta :”#IoSonoLoredana”. Lo mettono sotto la loro faccia pubblicando foto sui social. Inizia così, poi sono seguiti da colleghi di altri reparti, poi da altri ospedali, quindi da altri colleghi in tutta Italia. La speranza è che l’onda si allarghi e coinvolga anche la società civile, quell’utenza che riconosce l’importanza del lavoro dei sanitari ma; soprattutto, che raggiunga chi ha il potere di modificare le cose garantendo la necessaria sicurezza durante quel lavoro che deve tornare ad essere un’arte: la più bella tra le arti belle.
Massimo Arudine
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