Proponiamo un interessante contributo del nostro collaboratore dal Regno Unito, Luigi D’Onofrio.
Il 15 gennaio sarà una data decisiva per tutti gli italiani emigrati nel Regno Unito e, con loro, anche della comunità infermieristica emigrata oltremanica. Il Parlamento di Londra sarà infatti chiamato a ratificare o rifiutare l’accordo (deal) sulla Brexit, presentato dal primo ministro Theresa May e già approvato dall’Unione Europea. Il susseguirsi degli eventi, specialmente nelle ultime settimane, appare decisamente tumultuoso, per usare un eufemismo. Quindi sarà bene tracciarne un breve riassunto.
Il voto sull’accordo, originariamente previsto per l’11 dicembre, era stato fatto slittare dalla stessa May alla metà di gennaio, a causa delle forti frizioni presenti tra i membri del partito di maggioranza Tory, che rendevano estremamente incerta l’approvazione. I contrasti sono poi riemersi proprio nella giornata di martedì 8 gennaio, quando 20 parlamentari “dissidenti” della maggioranza si sono uniti al partito di opposizione Labour in un voto finalizzato a bloccare il Governo nel condurre ogni eventuale iniziativa di Brexit no deal.
Una bocciatura della proposta della May, che definisce in ben 585 pagine le future relazioni della Gran Bretagna con l’Unione Europea, aprirebbe le porte a un catastrofico scenario, in cui scambi finanziari e di merci dovrebbero essere riscritti daccapo, portando a un rapido collasso dell’economia britannica e a una più che probabile diaspora degli immigrati comunitari.
Nel frattempo si susseguono senza sosta, come in una disperata e pericolosa corsa sulle montagne russe, proposte e iniziative del Governo. Lunedì 7 gennaio sono stati fatti transitare verso il porto di Dover circa 90 tir contemporaneamente, come stress test in vista di un eventuale rallentamento delle formalità burocratiche alle dogane, mentre aumenta di giorno in giorno il numero delle forze di sicurezza inviate a presidiare il Parlamento a Westminster, in vista del voto del prossimo martedì.
Sembra invece rientrata, per fortuna, l’autolesionistica strategia di immigrazione del ministro per gli Interni, Sajid David, che prevedeva per gli europei in arrivo dopo il periodo di transizione, ovvero a partire dal 2021, un visto annuale e una soglia minima di reddito – all’ingresso! – di ben 30mila sterline (fuori dalla portata di molti medici e infermieri).
Nel frattempo il primo ministro ha varato, sempre lo scorso lunedì, un piano decennale di sviluppo dell’NHS, basato su un finanziamento di 20,5 miliardi di sterline. Il focus del programma verte sull’implementazione delle nuove tecnologie digitali, soprattutto legate all’intelligenza artificiale e alla genomica, con l’obiettivo di rendere la sanità pubblica inglese tra le più innovative al mondo. Non sono tuttavia mancate le critiche, che hanno puntato il dito contro il taglio del 20% ai servizi di comunità e, guarda caso, proprio alle politiche di immigrazione e di formazione universitaria dei nuovi professionisti.
Le enormi carenze di personale infermieristico, che hanno toccato il record di 41mila unità nello scorso autunno, renderebbero infatti irrealistica l’attuazione del Long Term Plan della May, salvo decise inversioni di rotta o aggiustamenti “verso il basso”, come quello che, in queste ore, sta portando i vertici dell’NHS a ridiscutere ed eventualmente abolire il target della dimissione, entro 4 ore, del 95% dei pazienti presenti nei pronto soccorso (A&E). Un obiettivo che, proprio a causa della crisi di personale, è fuori dalla portata di molti ospedali inglesi ormai da diversi anni.
In questo allarmante scenario emerge allora, in tutta la sua drammaticità, la scelta di chiudere le porte all’ingresso di professionisti qualificati dall’Unione Europea, che a loro volta stanno voltando le spalle alla Gran Bretagna: ben 7mila hanno abbandonato il Paese negli ultimi due anni, mentre il flusso in entrata, complice il requisito della certificazione linguistica, si è ridotto a poche decine di unità l’anno, rendendo eccezionalmente complicate le campagne di reclutamento in Paesi mediterranei, come l’Italia o la Spagna.
La comunità infermieristica italiana, avvolta dall’incertezza e dalla prospettiva di dover optare per un permesso di soggiorno permanente, perde intanto alcuni elementi, generalmente di rientro in Italia, ma prosegue, in linea di massima, il suo percorso professionale in terra britannica.
Fino al dicembre 2020, in ogni caso, i diritti preesistenti dei cittadini comunitari residenti nel Regno Unito continueranno a essere garantiti anche in caso di no deal. Così come in Italia (e, mentre scrivo, anche in Olanda), il ministero degli Affari esteri ha comunicato all’associazione British in Italy, rappresentativa dei sudditi di sua maestà nel Belpaese, che sarà loro garantita l’assistenza sanitaria gratuita presso le strutture pubbliche italiane, anche nello scenario più estremo, ovvero in assenza di ogni forma di concordato tra i due Paesi. Sicuramente una delle poche buone notizie finora giunte dal fronte Brexit.
Luigi D’Onofrio
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