I carabinieri ipotizzano che questa prassi fosse finalizzata a mascherare l’attività intramoenia dei medici.
Nel vaso di Pandora scoperchiato dalla Procura di Genova c’è una nuova categoria che, a quanto pare, superava le code della sanità pubblica e otteneva esami sanitari senza pagare il ticket: i morti. “In taluni casi anche a distanza di oltre un anno dal decesso”, annotano gli inquirenti. Ma non è l’unica sorpresa riservata dall’incrocio della mole immensa di provette di urine e sangue processate al laboratorio dell’ospedale San Martino: tra le migliaia di “finti ricoveri” in “finti reparti” (il nuovo trucco escogitato per “eludere i controlli del Sistema sanitario nazionale), c’è anche una mare di “nomi fittizi” e identità “cancellate subito dopo l’esame”. Utenti inesistenti nella realtà, che – ipotizzano i carabinieri del Nas – venivano inventati con uno scopo specifico: mascherare “attività intramoenia” e “provette che ragionevolmente fanno supporre che il campione provenisse da strutture sanitarie esterne”.
«Non era insomma ciò che sembrava: non solo la scoperta di una via parallela (e illegale) riservata a medici e infermieri per analisi eseguite “in casa”; non solo un diffuso malcostume che allargava la cerchia di favori ad amici e parenti, tra cui molti figli di dottori che, avendo meno di 14 anni, non sono imputabili”. La mole delle persone coinvolte, scoperte analizzando un solo anno (dalla metà 2015 alla metà del 2016), è troppo vasta, secondo i magistrati: 2.300 indagati, “714 dipendenti responsabili penalmente, di cui 651 in qualità di accettanti (cioè pazienti, ndr)”. Per gli investigatori, questo andazzo (“comportamenti che mostrano totale spregio dell’interesse pubblico” e “di inaudita gravità”) era qualcosa di più strutturato. E ad aprire uno squarcio su questo nuovo filone di indagine è l’inchiesta interna della commissione disciplinare istituita dal San Martino, che, secondo chi indaga, a un certo punto prova a mettere una pezza allo scandalo, ma solo dopo un periodo di “inerzia totale”.
Tra i documenti più interessanti salta fuori la testimonianza di un’infermiera: “Addirittura – annotano i militari, coordinati dal piemme Cristina Camaiori e diretti dal maggiore Massimo Pierini – in alcune missive una dipendente ha dichiarato alla direzione aziendale che i campioni biologici oggetto dell’accettazione irregolare erano provenienti da attività libero-professionale in regime intramoenia di un medico”. E ancora, il faro è acceso su una nebulosa di figure “difficilmente controllabili”: “specializzandi, ricercatori universitari, dottorandi, volontari e finanche persone appartenenti ad associazioni private”. Possibile, si domandano gli inquirenti, che anche i precari imbucassero parenti e amici?
Tra le mille anomalie di questa vicenda c’è anche un’epidemia di malori sul posto di lavoro, una percentuale che per la Procura sfiora l’assurdo: in “417 casi” (in un solo anno), infermieri e medici chiamati a giustificare il proprio inserimento nel sistema di analisi nel ruolo di pazienti ricoverati (“senza aver pagato il ticket”) hanno detto “di essersi sentiti male in servizio”.
Un primo scandalo aveva già investito il laboratorio analisi del San Martino tra il 2008 e il 2010. L’ipotesi, anche allora, era che le apparecchiature pubbliche fossero appesantite da esami poi fatturati. Le irregolarità diffuse, compresi esami ad amici e parenti, avevano portato a 130 risarcimenti imposti dalla Corte dei conti (l’inchiesta è stata archiviata ormai in prescrizione). Da allora, secondo gli inquirenti, non è cambiato sostanzialmente niente, se non il codice per “bucare” il sistema informatico: un tempo veniva utilizzata la sigla “labin”, per distinguere la via “interna” e irregolare; l’evoluzione è “Aaaa”, ovvero l’identificazione di un “reparto ambulatoriale inesistente”.
Redazione Nurse Times
Fonte: Il Secolo XIX
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