Il 49enne Lorenzo Pieri, accusato di omicidio volontario aggravato per il decesso dell’87enne Francesco Piccinin, sostiene di aver agito col solo scopo di calmare la vittima e alleviarne le sofferenze. Chiesta anche la condanna per omicidio colposo di quattro medici che avrebbero sbagliato diagnosi e cure, considerando irreversibili le gravi condizioni dell’anziano, ricoverato all’ospedale Salvini per una polmonite.
Il pm di Milano, Nicola Rossato, ha chiesto una condanna a nove anni e sei mesi per Lorenzo Pieri, 49enne infermiere a processo per la morte dello zio di sua moglie, Francesco Piccinin, 87enne deceduto il 10 ottobre 2020 all’ospedale Salvini di Garbagnate (Milano), non lo stesso in cui lavorava l’imputato. Un caso molto complesso, passato anche per consulenze e perizie. L’accusa è quella di omicidio volontario aggravato per aver somministrato una dose letale di morfina e antidepressivi durante una visita nel reparto di Pneumologia.
“Ha praticato i boli come se fosse lui l’infermiere della sedazione terminale, perché gli era stato detto che il parente era spacciato, perché voleva porre fine allo stato in cui si trovava una persona cara, di famiglia”, ha detto il pm nella sua requisitoria davanti alla Corte d’Assise di Milano. Lo stesso Rossato ha chiesto anche la condanna per omicidio colposo di quattro medici (e l’assoluzione per un quinto), perché avrebbero sbagliato diagnosi e cure, tant’è vero che per la Procura ci fu “un’ingiustificata definizione di irreversibilità” delle gravi condizioni cliniche dell’87enne, colpito da una polmonite. Pieri fu fermato una ventina di giorni dopo la morte di Piccinin con l’accusa di omicidio e messo agli arresti domiciliari.
Sempre secondo il pm, Pieri aveva “un bel rapporto” con l’anziano, anche perché “sua moglie trattava lo zio come un padre”, e decise di porre fine alle sue sofferenze dopo che il 7 ottobre aveva saputo dai medici che “le sue condizioni erano irreversibili”. Per questo è stata chiesta la concessione delle attenuanti generiche, ma anche di quella “di aver agito per particolari valori morali e sociali”, giacché “il suo scopo era nobile”. Attenuanti che dovrebbero prevalere sull’aggravante dell’uso di “sostanze venefiche”.
Piccinin era stato ricoverato il 30 settembre 2020 per una grave forma di polmonite (non da Covid) e, stando alle indagini, il marito della nipote, infermiere e operatore di rianimazione in un’altra struttura che aveva il permesso di andare a trovarlo, il 9 e il 10 ottobre gli avrebbe somministrato dosi massicce di morfina e di un farmaco antidepressivo. Non per causarne il decesso, a suo dire, bensì per calmarlo e alleviarne il dolore. “Ho agito in stato di paura e necessità – si era difeso –. Lo volevo tranquillizzare e lo sedai affinché si calmasse. Agii di impulso, ritenendo quel quantitativo non pericoloso”.
Di diverso avviso il pm, il quale ha ribadito che “il suo scopo era la morte, senza alcuna crudeltà. Era stato lui a portarlo in ospedale per farlo curare”, precisando però che “non è mai stata ipotizzata alcuna pista economica”. Anzi, qualche giorno prima del 10 ottobre Pieri e la moglie “liquidarono” una somma di denaro perché pensavano già a “pagare il funerale” dell’anziano.
“Il 7 i medici gli avevano detto che era finita, che non c’era più niente da fare”, ha aggiunto il pubblico ministero, spiegando che l’anziano era già “in terapia palliativa, sedativa”, e contestando anche gli elementi contenuti in una perizia in base alla quale erano state escluse responsabilità dei medici in diagnosi e cure. Le difese parleranno a novembre, mentre la sentenza è prevista a dicembre.
Redazione Nurse Times
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