INTERVENIRE SULLE CAUSE CHE HANNO DETERMINATO LA CARENZA DI PROFESSIONISTI DELLA SALUTE.
Venezia 7 luglio 2021. “Preso atto che mancano medici, infermieri e operatori socio-sanitari, e non solo nelle strutture extraospedaliere, si continua a denunciare il problema o si assume la responsabilità di trovare soluzioni sapendo che nel breve periodo gli interventi non potranno essere che palliativi?” domanda Ivan Bernini segretario generale della Fp Cgil Veneto.
“Continuiamo a far finta che il problema nasca oggi o ci vogliamo rendere conto che il tema, che l’emergenza pandemica ha messo in evidenza, in realtà risale al principio degli anni duemila?”.
Al principio degli anni 2000 la carenza di personale infermieristico era già manifesta: val la pena di ricordare che anche allora si reclutavano infermieri dal Sudamerica e dall’Europa dell’Est e che nelle strutture residenziali per anziani si sottoscrivevano accordi di incentivazione economica al personale infermieristico per “evitarne la fuga” nelle Ulss. Già allora non era infrequente, viceversa, la “fuga” del personale italiano all’estero, per i vincoli alle assunzioni e il blocco dei concorsi in molte realtà del Paese, per ragioni economiche e professionali.
Immaginare, come fanno taluni, che sia necessario bloccare le assunzioni nelle Ulss per evitare la “fuga” del personale appare francamente irricevibile per le stesse strutture Ulss che hanno la necessità di incrementare il personale a fronte dello sforzo immenso nel recuperare migliaia di prestazioni rallentate nel corso della pandemia. Così come ci pare inutile ed inopportuno immaginare soluzioni che guardano a modifiche ordinamentali, professionali ed economiche riferite alle singole professioni e non al loro insieme. “In cordata si sale tutti assieme e in maniera sincrona o si cade. E chi cade trascina tutti”.
Come si potrebbe affrontare il problema in una prospettiva almeno di medio periodo?
Anzitutto assumere contezza che la priorità, oggi, è invertire la narrazione che non si debba incrementare la spesa pubblica, inclusa la spesa corrente, per finanziare ed incrementare formazione, lavoro stabile e retribuzioni. Se in nome dell’interesse generale riferito alla salute pubblica si sono operate talune scelte in quest’ultimo anno è giusto dirci che per lo stesso interesse nel futuro è giusto smetterla con le politiche di taglio alla spesa.
In secondo luogo non ci sono più dubbi sulla necessità di un contratto unico di settore: pari normativa, pari condizione economiche. “Mercato, competizione e frammentazione contrattuale” anche nell’ambito della salute, sono tra le principali cause che hanno determinato questa situazione: se vuoi rendere attrattivo il lavoro, qualsiasi lavoro, e vuoi anche un servizio di qualità devi pagare le persone, le devi mettere in condizione di poter lavorare bene e devi riconoscere la possibilità di uno sviluppo di carriera e professionale. Diversamente, se nel pubblico continui a non rinnovare i contratti per anni e nel privato mantieni una competizione contrattuale che consente ad imprenditori privati e a imprese no profit smemorate della loro vocazione originaria di poter applicare ciò che costa meno, non ci si meravigli se le persone prima o poi scappano.
Nell’immediato come soluzioni “emergenziali”?
Non vediamo soluzioni se non quelle che si provano oggi ad utilizzare mettendo a disposizione lavoratori e modelli organizzativi, sinergie e collaborazioni attraverso convenzioni tra strutture pubbliche. Considerando che servono anche finanziamenti aggiuntivi per evitare differenziazioni economiche tra lavoratori nel medesimo posto di lavoro che fanno medesime attività ma dipendono da soggetti diversi.
E serve – conclude Bernini – assumere a tempo indeterminato tutto il personale; anche quello che i decreti legge emergenziali avevano previsto a termine. Per fare questo serve l’eliminazione dei vincoli alla spesa ancora presenti nella legislazione nazionale.
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