Da infermiere, ho detto mille volte “tanto prima o poi verrò infettato anche io”. L’ho detto senza troppa paura, con la consapevolezza del rischio altissimo che io e i miei colleghi sanitari corriamo ogni giorno.
L’ho detto perché vivevo nel PRIMA. Il problema è quando il POI arriva e ti presenta il conto. Amaro, presuntuoso, tagliente.
“Il suo tampone è positivo, da questo momento deve stare a casa dal lavoro ed è sotto sorveglianza, i suoi dati sono già stati comunicati al SISP”.
In un primo istante ti dici: “beh, d’altronde lo sapevo che poteva succedere”, in un secondo istante ti accorgi che sapevi del rischio ma non eri assolutamente pronto a sentirtelo diagnosticare e, soprattutto, ti sembrava di aver fatto di tutto per evitarlo e a quanto pare non è bastato.
Le prime ore sono una mezza tragedia, un nodo in gola persistente, il terrore di aver fatto del male a qualcuno di caro, il cervello che frulla per pensare chi hai visto e quando, se avevi la mascherina o se non la avevi, la confusione delle mille chiamate e i mille messaggi tra famiglia, amici, uffici, medico, colleghi, la quarantena delle persone con cui sei stato a contatto, con il conseguente disagio nelle loro vite per il quale ti senti enormemente responsabile.
La sensazione di essere un appestato, come se aver contratto il Covid-19 fosse una colpa. La paura di dirlo e di far preoccupare. Il timore di essere visto come un colpevole nonostante tutti gli sforzi fatti.
Poi lentamente inizi a rallentare con la mente, inizi a ragionare un po’ di più. E li arriva la rabbia, li arriva la delusione vera.
Sono un infermiere, sono un piccolo mattoncino di quel sistema sanitario nazionale efficiente e gratuito tanto osannato nel mondo.
Ma stiamo parlando dell’Italia, un paese il cui governo per anni e anni ha tagliato fondi alla sanità, facendosi bello sulle spalle altrui, utilizzando i vari mattoncini come carne da macello.
E questa è la resa dei conti: un’emergenza e il personale sanitario in prima linea a combattere il covid19 senza protezioni adeguate perché non ci sono soldi per fornire i dispositivi di protezione e ora, quel personale sanitario si ammala.
E ora a chi dico grazie? Allo Stato? Al governo? Chi devo ringraziare io, infermiere che per fare il mio lavoro e il mio dovere, non ho potuto proteggermi in modo efficace e sono stato contagiato?
E a chi dico grazie per ritrovarmi chiuso in casa fino alla negativizzazione del mio tampone mentre so che là, nel mio reparto, nel mio ospedale, nel mio sistema sanitario c’è la guerra e anche il mio contributo, seppur piccolo, sarebbe importantissimo?
Non so a chi devo dire grazie, so solo che nonostante la rabbia e la delusione, nonostante la paura, ora è tempo di lottare per la salute della nostra popolazione e spero che al più presto il mio tampone si sarà negativizzato e potrò tornare in trincea coi miei “simili” perché ora è tempo di combattere questa guerra senza pensare a null’altro come ogni buon soldato farebbe.
Ma spero col cuore che, finito questo incubo, le cicatrici di guerra che porteremo dentro e fuori, non restino semplici cicatrici ma diventino ribellione verso chi ha tagliato fondi per anni, e ancora di più spero che la popolazione per la quale noi oggi stiamo dando tutto a discapito della nostra salute, non si dimentichi e si faccia sentire con noi per un obiettivo comune: la tutela del personale e del sistema sanitario per poter garantire la salute dei cittadini italiani.
Emanuele. Un soldato ferito.
Redazione Nurse Times
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