Una professione è percepita socialmente come tale anche in base alla narrazione che sa fare e imporre nella società di se stessa. Se dovessi fare un video di presentazione della mia professione e del ruolo dell’infermiere di Area Critica sarebbe più o meno così:
Sono Andrea Farris Infermiere. Dopo la Laurea in infermieristica e il Master in Area Critica; ho lavorato per sette anni in Terapia Intensiva e ora lavoro presso il servizio 118. Io sono quel professionista che è in grado di garantire il mantenimento delle tue funzioni vitali di base durante la criticità; sono quel professionista che ha la responsabilità di gestire le vie aeree artificiali e la ventilazione mentre sei intubato in una rianimazione; sono quel professionista che ha le capacità e la responsabilità di valutare costantemente il tuo stato di salute e mettere in atto tutti gli interventi necessari a prevedere ed evitare eventuali peggioramenti.
Sono il professionista che, dopo averti accompagnato nella fase più critica, cederà la responsabilità della tua salute ad un altro collega; altrettanto preparato, che ti accompagnerà nella guarigione e nella riabilitazione.
Trenta secondi di video, dove si parla di formazione, competenze capacità e responsabilità di una professione. Si perché una “professione intellettuale” è percepita come tale nella società se viene associata a questi fattori acquisendo autorevolezza.
E invece NO. Evidentemente sbaglio io nella mia visione di rilancio sociale dell’infermiere.
Il web, ormai da 15 anni, pullula di video realizzati sia da organi professionali che da singoli professionisti dove il copione è sempre lo stesso e sempre fortemente impregnato di uno stantio spirito missionario:
“Ho scelto di fare l’infermiere per aiutare le persone”; “Ho scelto di fare l’infermiere perché è una professione di servizio”; Ho scelto di fare l’infermiere per stare vicino ai pazienti”.
Cosa pensiamo di comunicare ai cittadini con queste iniziative dal punto di vista della formazione, competenza e responsabilità? Assolutamente nulla; e a dimostrarlo tutti i giorni c’è la continua discrepanza tra le responsabilità acquisite dall’infermiere e la percezione “ancellare” che l’utenza ha di noi.
Il motivo è semplice, un affermazione del genere non comunica minimamente, nella percezione di chi l’ascolta; la visione dell’infermiere come protagonista attivo del percorso di cura; ma mantiene la percezione dell’infermiere come figura marginale, non essenziale nel raggiungimento dell’obbiettivo salute.
Non è un caso se i nostri colleghi fisioterapisti, ostetriche e tecnici di radiologia etc, avendo avviato ed avendo lavorato ad una narrazione differente della propria professione; ad oggi hanno una considerazione sociale e una autorevolezza superiore alla nostra. Tanto che molti colleghi mi hanno più volte segnalato come l’utenza contesti alcune scelte infermieristiche su materie di esclusiva competenza infermieristica; come la gestione della medicazione di una tracheostomia con frasi de tipo “me l’ha detto il fisioterapista” oppure “me l’ha detto il logopedista”; dando per scontata una scala gerarchica ideale di competenze e preparazione di cui l’infermiere rappresenta l’ultimo anello.
E allora mi chiedo se non si possa fermare questa macchina propagandistica fallimentare e, a bocce ferme; avviare un dibattito sul racconto che vogliamo fare di noi stessi alla popolazione ponendoci obbiettivi di riconoscimento sociale ben precisi e sulla base di questi elaborare con professionisti piani di marketing strategici.
Perché se questo cambiamento parte dagli organi professionali, dai sindacati di categoria e dalle associazioni degli infermieri; allora in breve tempo l’intera professione potrà cambiare la narrazione di se stessa e, con questa rivoluzione, la sua percezione sociale.
Andrea Farris
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