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Dialisi: il vissuto del paziente in un progetto di ricerca

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La persona affetta da insufficienza renale cronica ha affrontato l’esperienza di un cambiamento radicale della propria vita, per la riduzione dell’efficienza fisica, per le restrizioni alimentari, o di altro tipo, per il legame indissolubile, e assai rigido, con la macchina e il personale sanitario. La sfida per l’infermiere, come sempre, è quella di mettere il malato nella condizione di gestire autonomamente la propria diminuzione fisica, rendendola compatibile con la definizione di salute che ben conosciamo.                                                                                                                                     Per “star bene”, il paziente deve eseguire costantemente i controlli specialistici, gli esami prescritti e seguire, in modo scrupoloso, le indicazioni del nefrologo. Tutto ciò per sopravvivere alla malattia, non per vivere e convivere pacificamente con se stessi.

“Quali sono le modificazioni che intervengono nel vissuto della persona con l’evento dialisi? La perpetuosità del rito della terapia influenza la sua qualità di vita?”

Presso l’Azienda Ospedaliera San Camillo – Forlanini e l’Azienda Ospedaliera San Giovanni Addolorata di Roma è stato sviluppato un progetto di ricerca che ha visto protagonisti i dializzati, che, per un periodo di 8 mesi hanno compilato un diario personale ove hanno riportato ogni giorno o quasi, il loro vissuto da quando sono entrati in terapia dialitica e le eventuali modificazioni intervenute nel loro essere uomo con l’inizio della stessa.

Ansia, paura, angoscia, disperazione: il paziente riferisce di SENTIRSI all’inferno, è sempre in ospedale, è sempre molto solo ad affrontare il tutto. Faticosi sono i tentativi di difendere il proprio ruolo.

La famiglia ti ama, ti accoglie, ti protegge, per la precisione ama il padre, il marito, il maggiore produttore di reddito, la guida, il capo branco, l’elemento forte del gruppo. Per questo la persona colpita ha in corso da sempre una lotta contro la malattia e contro il suo apparire. Molto spesso si viene anche colpevolizzati di essersi ammalati come se la malattia è qualcosa che si può scegliere o gestire, o ancora viene riconosciuta la malattia come la giusta punizione per una colpa commessa.

Tutto ciò comporta il mettere in atto dei meccanismi di difesa da parte del cliente che si chiude sempre più in se stesso, solo nel suo dolore, solo nelle sue difficoltà, solo nella sua solitudine. Il trapianto è percepito dal paziente come l’unica vera forma di guarigione dell’I.R.C., ruotano intorno a tale evento sentimenti diversi: paura di qualcosa che non si conosce, di condividere l’organo di un altro, che possa nuovamente riammalarsi, del fantasma del rigetto il quale può sopraggiungere in qualsiasi momento e ricondurre di nuovo in dialisi.

Lo scopo di conoscere i pensieri più intimi, racchiusi nell’essere dializzato, deve essere il perno per pianificare un’assistenza personalizzata, cosciente della malattia e capace di offrire un supporto iniziale e poi continuativo alla famiglia dell’interessato affinché questa accetti e viva l’evento dialisi nel modo più sereno possibile e abbia quindi ripercussioni positive sul possibile stato di salute della persona colpita da I.R.C.. Uno strumento pratico può essere l’istituzione di gruppi di lavoro con pazienti, i loro famigliari, pazienti già trapiantati, pazienti in fase predialitica, personale infermieristico, medici, psicologi; affrontando tematiche di interesse.

La seduta emodialitica non dev’essere vista solo come un obbligo, ma come tempo per leggere, ascoltare la radio, guardare la TV, utilizzare un personal computer, conversare con altre persone, dormire, sognare; solo così potremo raggiungere il nostro obiettivo: reinserire l’uomo in senso olistico nel tessuto sociale d’apparenza.

Sabina Piazzolla

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