Quattro chiacchiere col giovane atleta di Maddaloni, da dieci giorni in prima linea all’ospedale Covid della sua città.
A combattere, lui, ci è abituato. Combatte da anni sul tatami, il tappeto dove si sfidano gli atleti che praticano arti marziali. E combatte alla grande, su quel tappeto, tanto che è riuscito a laurearsi campione nazionale universitario di taekwondo nel 2018. La sfida più difficile, però, la sta affrontando da dieci giorni a questa parte, cioè da quando è stato catapultato nel reparto di Terapia intensiva 1 dell’ospedale Covid di Maddaloni (Caserta), la sua città.
Il 23enne Pietro D’Angelo ha svestito il dobok, come si chiama la divisa da taekwondo, per indossare un’altra divisa da combattimento: il camice da infermiere, professione che esercita dallo scoro novembre, in virtù della laurea conseguita all’Università “Vanvitelli” di Napoli (sede decentrata di Maddaloni). «Tornerò a combattere anche sul tatami – ci dice al telefono –, ma solo quando la morsa dell’emergenza si sarà allentata. Ancora per qualche mese la prevenzione deve venire prima di tutto».
In attesa del ritorno all’attività agonistica, dunque, il giovane Pietro si preoccuperà di sferrare calci solo al coronavirus, avversario invisibile, subdolo, ben più pericoloso di quelli in carne e ossa che fronteggia per sport. L’attitudine alla lotta lo aiuterà. Del resto le analogie non mancano: «Nel taekwondo, così come in corsia, si devono indossare molte protezioni. Servono ad attutire i colpi più duri, tipo i calci al volto. I colpi sferrati dal coronavirus, però, fanno più paura. E le stesse protezioni che indossiamo per tante ore in ospedale, se da un lato ci proteggono, dall’altro ci fanno male, lasciando segni profondi sul nostro corpo».
Per fortuna, comunque, le protezioni non mancano: «All’ospedale di Maddaloni non esiste un problema di carenza dei Dpi. Le forniture arrivano regolarmente e, in generale, svolgiamo un eccellente lavoro di equipe. Tra colleghi di reparto, regna uno splendido spirito di collaborazione. Funziona pure la metodica per comunicare con l’ambiente esterno, basata sull’uso di walkie-talkie. Insomma, siamo davvero ben organizzati. Ringrazio di cuore i miei colleghi, che mi aiutano e mi insegnano tanto».
Aiuto e insegnamenti che arrivano anche dai genitori. Sì, perché Pietro è “figlio d’arte”. Mamma e papà, infatti, sono infermieri dell’Azienda Ospedaliera di Caserta e ne incoraggiano la doppia carriera, sportiva e professionale: «Quanto al taekwondo, all’inizio, erano un po’ scettici, poiché non conoscevano questa disciplina. Poi si sono informati, e adesso mi sostengono in pieno. Quanto al lavoro di infermiere, invece, mi hanno fatto sempre sentire il loro appoggio. Mio padre, in particolare, è entusiasta che io abbia seguito le sue orme».
E dire che il ragazzo, in principio, sembrava intenzionato a intraprendere un’altra strada. Ancora con addosso una divisa, ma ben diversa. «Avevo pensato a una carriera nell’Esercito», ammette. Alla fine, tuttavia, ha prevalso la sua vera vocazione: «Come si suol dire, la divisa da infermiere mi ha scelto. Si vede che era destino. Del resto l’ambiente ospedaliero mi è sempre stato familiare. E non solo perché ci lavorano i miei genitori. Si tratta di un ambiente che in passato mi è capitato di frequentare pure come paziente, avendo dovuto fare i conti con alcuni problemi di salute. Sono quindi abituato a stare tra gli infermieri. So bene quanto sia importante il loro lavoro, che ora è anche il mio».
Un lavoro importante, sì. Ora se ne sono accorti tutti. Eppure… «Eppure, fino a poco tempo fa, era un lavoro sottovalutato, per non dire bistrattato. Adesso ci definiscono “eroi”, ma meritavamo rispetto anche prima. Spero che, quando questa emergenza sarà finita, la gente si ricordi dei nostri sacrifici e ci rivaluti definitivamente».
Redazione Nurse Times
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