Home Infermieri Cosa vuol dire maltrattare un anziano in RSA? Il tema dei «grandi» e «piccoli» maltrattamenti
InfermieriSpecializzazioni

Cosa vuol dire maltrattare un anziano in RSA? Il tema dei «grandi» e «piccoli» maltrattamenti

Condividi
Cosa vuol dire maltrattare un anziano in RSA? Il tema dei «grandi» e «piccoli» maltrattamenti
Condividi

Siamo stati abituati, anche grazie all’opinione pubblica, a pensare ai maltrattamenti solo come ad una realtà purtroppo esistente; che ogni tanto emerge in tutta la sua crudeltà, inspiegabile fino al punto da toglierci ogni freno inibitorio nel commentarla. 

Quante volte avremo visto un video, in televisione o su internet, con le immagini e gli audio messi a disposizione dalle varie procure a termine delle indagini che hanno riscontrato gravi maltrattamenti all’interno delle case residenze anziani?

Quante volte, nel guardare e nell’ascoltare quelle nefandezze così devastanti, così crudeli inverso la persona umana nella fase più fragile della sua esistenza, umiliata, vilipesa, derisa, oltraggiata e violentata nella sua dignità più intima; avremmo voluto vendicarci con le nostre stesse mani, seduta stante, contro quelle persone, ovvero quegli operatori sanitari che le hanno commesse? 

Decine e centinaia di casi negli anni, fra anziani, disabili e purtroppo a volte anche bambini. Certo non si può però far finta che la prima fascia; ovvero quella degli anziani, non sia la più soggetta a questo genere di casistica: nel complesso, bambini e disabili sono probabilmente fasce più seguite. I bambini inoltre sono già capaci di riferire, di esternare turbamenti attraverso i disegni o addirittura tramite le emozioni e persino le parole; i disabili, parimenti, anche se ovviamente non i tutte le realtà, sono leggermente più seguiti.

Va da sé che l’anziano residente in struttura, in una società tronfia di inclinazioni utilitariste; è il soggetto più indifeso, spesso meno seguito e meno ascoltato.

Di casi di gravi maltrattamenti, purtroppo, negli anni ne abbiamo visti e sentiti tanti, da far accapponare la pelle. Per tanti che ne sono usciti, altrettanti e anzi di più esisteranno nell’omertà e nel silenzio di molti. 

Questo non per dire che le case residenze anziani sono dei lager: assolutamente no. Possiamo stare certi, e lo dico anche a ragione del mio interesse dal momento che lavoro in una CRA; che la maggior parte di esse siano loghi sicuri oltre che luoghi di cura, di accoglienza e di affetto.

D’altro canto non ci si può esimere dal constatare che la mostruosità esiste, anche in questo campo sociale così delicato; complice la cattiverai umana, sì, ma a volte anche il degrado lavorativo, organizzativo e contrattuale che riguarda talune realtà. 

Ebbene, dicevamo, siamo stati abituati a concepire l’idea del maltrattamento come l’immagine degli operatori che picchiano, seviziano, umiliano ed offendono l’anziano o il diversamente abile con infinita crudeltà. Tutto ciò è mostruoso, da condannare e soprattutto da combattere con ogni forza possibile.

Allo stesso tempo, però, questa importante presa di coscienza di una realtà che può esistere soprattutto se riceve la cooperazione dell’omertà, rischia di farci dimenticare o peggio, sottovalutare, la complessità profonda di ciò che può essere il «maltrattamento» dell’anziano in senso lato all’interno delle strutture. 

Molte volte, guardando quei video e ascoltando le parole di quelle bestie che maltrattano gli anziani diciamo a voce alta, anche fra colleghi «Non so come si possa essere così cattivi e disumani». E ancora: «Io non farei mai una cosa del genere!» 

È indubbio che una persona normale mai si spingerebbe a tanto, ad un sì crudele cumulo di reati civili, penali, morali, sociali, umani. La reazione, perciò, è normale. Dovremmo dire doverosa.

Tuttavia la vera domanda è: siamo certi, noi operatori sanitari che esercitiamo la nostra professione, la nostra bella professione all’interno delle residenze per anziani; di non mettere in atto o di non prendere parte, quotidianamente, a quei «piccoli maltrattamenti» che a lungo andare feriscono l’anziano, lo umiliano e lo privano della sua autonomia senza prendersi a carico il bisogno che l’anziano ci espone? 

Quante volte abbiamo sentito rispondere all’anziano che chiedeva di essere portato in bagno, «ora non ho tempo, falla nel pannolino».

Quante volte abbiamo sentito rispondere, o abbiamo risposto noi all’anziano che chiedeva di potersi alzare, «stai seduto sennò ti lego con la cintura».

Quante volte avremo sentito rispondere all’anziano che obiettava qualcosa, «tu non sei un infermiere, tu non sei un operatore: sappiamo noi cosa è giusto per te», tappandogli la bocca e privandolo della sua libertà e della sua consolidata e meritevole di degno rispetto storia di vita. Sfregiandolo, insomma, nella sua autostima già fin troppo minata?

Quante volte l’anziano che espone una propria necessità non viene considerato; e magari si torna da lui solo dopo aver finito di fare altre cose non primarie o urgenti?

Quante volte si è sentito il borbottio del collega, o la lamentatio di qualcuno per il tempo «perso a chiacchierare con l’anziano»?

Per quanto tempo — e ancora oggi è così — la figura professionale dell’animatore, o comunque di chi organizza le attività di socializzazione e di carattere relazione degli anziani è visto come un perditempo ruba stipendio?

Quanto rigore, quanta poca elasticità nella subordinazione del programma di lavoro, degli orari, della catena di montaggio all’interno delle CRA che non può sgarrare di un secondo; che non può ritardare e che deve sistemare, a mo’ di sacchi inanimati, gli anziani entro l’orario prestabilito come fosse una fabbrica di cablaggi? 

Quante volte abbiamo taciuto, per paura della reazione, davanti ad un collega che si poneva in modo sbagliato nei confronti dell’anziano? Quante volte abbiamo cooperato al male standocene zitti seppur in disaccordo con una frase od un gesto esternato da un collega? 

Quante volte siamo stati noi sgradevoli o freddi con l’ospite che ci chiedeva qualcosa magari per la quinta volta a causa della sua malattia? 

Quante volte siamo entrati in camera, al mattino, al pomeriggio o alla sera trattando l’anziano come un fantasma, senza salutare o senza nemmeno chiedergli come stava?

Quante volte non ci siamo posti alcun tipo di remora nel lavare una persona anziana, ignari di quanto questo potesse provocarle imbarazzo e, quindi; la necessità di un tatto e di una preparazione più prolungata ed attuata anche attraverso un attento dialogo ed un sincero ascolto?

Potremmo andare avanti all’infinito, volendo, elencando tutta una serie di «piccoli maltrattamenti» che come tarli infestano il sistema dell’assistenza alle persone anziane le quali, oggi più che mai, per risollevarsi avrebbero bisogno dei dettagli assistenziali. È con i piccoli e grandi dettagli dell’assistenza che si migliora la qualità della vita delle persone parzialmente sufficienti o non autosufficienti. 

A motivo di ciò, prima di poter dire «io non maltratterei mai un anziano» sentendosi a posto con la coscienza solo per non aver infierito su di lui con una violenza fisica od una evidente violenza verbale, dovremmo pensarci bene. 

La coscienza è qualcosa di profondo, fatta di grandi e diversificati strati di responsabilità. Prima di uscire da un turno di lavoro «puliti» dovremo esserci analizzati bene, perché è dai «piccoli maltrattamenti» prolungati e mai sanati che si arriva a ledere profondamente, martellandola, la dignità della persona umana nelle sue fragilità, nei suoi bisogni e nella sua tanto complessa quanto meravigliosa soggettività unica ed irripetibile.

Solo abbattendo il muro dei «piccoli maltrattamenti» potremo combattere il sistema dei «grandi maltrattamenti»; che in proporzione, per quanto gravissimi, saranno sempre e comunque meno dei primi. 

Cristiano Lugli, Animatore sociale  CRA Oasi San Francesco Cereggio di Ramiseto (RE)

Ultimi articoli pubblicati

Condividi

Lascia un commento

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Articoli Correlati