Clorochina e idrossiclorochina non convincono l’Agenzia europea dei medicinali per via degli effetti collaterali sul ritmo cardiaco. I farmaci per la pressione alta, invece, non sembrano influenzare gravità e mortalità nei pazienti Covid.
“Clorochina e idrossiclorochina possono causare problemi del ritmo cardiaco e questi potrebbero essere aggravati se il trattamento è combinato con altri farmaci, come l’azitromicina antibiotica, che hanno effetti simili sul cuore”. A ribadire i possibili effetti collaterali di una terapia in sperimentazione contro Covid-19 è l’Agenzia europea dei medicinali (Ema).
La clorochina e l’idrossiclorochina sono autorizzate in Europa per il trattamento della malaria e di alcune malattie autoimmuni e vengono utilizzate da tempo, in studi clinici, nell’infezione da Sars-CoV-2. “I dati – spiega l’Ema in una nota – sono ancora molto limitati e inconcludenti e gli effetti benefici di questa terapia in Covid non sono stati dimostrati. Sono necessari risultati di studi ampi e ben disegnati per trarre qualsiasi conclusione”.
Quello che invece indagini recenti hanno mostrato in modo chiaro è che con l’uso di clorochina o idrossiclorochina, alcuni pazienti “hanno riportato problemi gravi, in alcuni casi fatali, del ritmo cardiaco, in particolare se assunti a dosi elevate o in associazione con l’azitromicina antibiotica”. L’Agenzia europea raccomanda quindi agli operatori sanitari di monitorare attentamente i malati, soprattutto se hanno problemi cardiaci preesistenti. Questi medicinali, infine, “non devono essere acquistati senza prescrizione né utilizzati senza la supervisione di un medico”.
L’Ema chiede di “segnalare eventuali sospetti effetti collaterali alle rispettive autorità nazionali di regolamentazione” (in Italia l’Aifa). Oltre agli effetti indesiderati a carico del cuore (inclusa un’anomala attività elettrica che influisce sul ritmo cardiaco, con il prolungamento del tratto Qt), clorochina o idrossiclorochina possono causare problemi a fegato e reni, danni alle cellule nervose e riduzione dei livelli di glucosio nel sangue (ipoglicemia).
Crescono anche negli Usa i dubbi sulla clorochina, indicata tra i farmaci più promettenti nella fase iniziale dell’epidemia. Uno studio dell’Università della Virginia – non ancora pubblicato – riporta i dati dell’uso dell’idrossiclorochina (derivato della clorochina) su 368 pazienti ricoverati in un ospedale per veterani. Il 28% di quelli a cui era stata data solo idrossiclorochina è morto, mentre in chi è stato curato con terapie standard, non specifiche per Covid-19, il tasso è risultato dell’11%; infine un gruppo che ha ricevuto idrossiclorochina associata a un antibiotico ha avuto un tasso di morte del 22%.
In merito alla necessità di ricorrere alla ventilazione meccanica, l’analisi non ha mostrato miglioramenti con il trattamento. La combinazione di idrossiclorochina e azitromicina è stata promossa da Donald Trump come presunta terapia efficace contro l’infezione da nuovo coronavirus. In un tweet del 21 marzo il presidente Usa scriveva che “idrossiclorochina e azitromicina, assunte insieme, hanno una chance reale di essere una delle più grandi svolte nella storia della medicina”. Oggi arriva la secca bocciatura dei National institutes of health (Nih) americani: nelle nuove linee guida pubblicate online si legge che la combinazione tra l’antibiotico azitromicina e l’antimalarico idrossiclorochina va evitata, «tranne che nell’ambito di uno studio clinico», a causa di «potenziali effetti tossici».
Non solo. Secondo uno studio pubblicato sulla rivista Circulation, nato dalla collaborazione tra l’Azienda ospedaliero-universitaria Senese e un gruppo di ricerca della New York University, i pazienti con Covid sono esposti già di per sé a un aumentato rischio di sviluppare aritmie cardiache. «L’infezione da Sars-CoV-2 – spiega Pier Leopoldo Capecchi, direttore Unità di Medicina interna e dell’urgenza dell’Azienda ospedaliero-universitaria Senese – provoca un aumentato rischio di sviluppare aritmie potenzialmente mortali. Attualmente si ritiene che ciò sia in parte legato a un danno miocardico da invasione diretta virale e dalla scadente ossigenazione dovuta all’interessamento polmonare, e in parte all’utilizzo di alcuni farmaci con azione antivirale che interferiscono con l’attività elettrica del cuore».
Per Capecchi, «dal momento che l’infezione grave da coronavirus è caratterizzata da una vera e propria tempesta infiammatoria, abbiamo suggerito di considerare lo stato infiammatorio di per sé come un fattore aggiuntivo di rischio aritmico nei pazienti e di valorizzare, in tal senso, il potenziale effetto protettivo svolto da farmaci in grado di bloccare specifiche molecole infiammatorie».
Ma la ferocia del virus Sars-CoV-2 non colpisce solo il cuore (e i polmoni): Covid è una malattia sistemica, il cui raggio d’azione si allarga all’intero organismo, danneggiando anche vasi sanguigni, reni, intestino (diarrea), occhi (congiuntivite) e cervello (encefaliti, crisi epilettiche, perdita di coscienza, perdita dell’olfatto, ictus). «Questa malattia può attaccare quasi tutto nel corpo con conseguenze devastanti», spiega Harlan Krumholz, dell’Università di Yale, sulla rivista Science.
Il virus inizia il suo cammino entrando nella gola e nel naso, dove trova un ambiente accogliente. Quindi produce infinite copie di sé stesso per invadere altre cellule. Quando il virus si moltiplica, la persona contagiata può diffonderlo, rimanendo asintomatica oppure iniziando ad avere febbre, tosse secca, mal di gola, perdita di gusto e olfatto, dolori al corpo e alla testa. Se il sistema immunitario non riesce a respingerlo in questa fase iniziale, il virus avanza causando la polmonite. In altre persone le cose possono peggiorare all’improvviso e si sviluppa la cosiddetta “sindrome da stress respiratorio acuto”, dove i livelli di ossigeno nel sangue crollano e respirare diventa sempre più difficile, con possibilità di arrivare alla morte. Si pensa che ciò possa dipendere da una iper reazione del sistema immunitario, chiamata “tempesta di citochine”.
C’è infine una buona notizia, o meglio una conferma. I farmaci per la pressione alta (come gli ACE-inibitori o i bloccanti del recettore per l’angiotensina) non sembrano influenzare gravità e mortalità nei pazienti Covid-19. Dubbi in tal senso erano sorti in quanto Sars-CoV-2 utilizza il recettore per l’enzima ACE-2 all’inizio del processo infettivo. Le rassicurazioni arrivano da uno studio di Aiping Deng, del Central Hospital of Wuhan in Cina, pubblicato sulla rivista Jama Cardiology.
Lo studio ha considerato 1.178 pazienti con età media 55 anni, di cui 362 ipertesi; il 31,8% degli ipertesi era in cura con ACE-inibitori o bloccanti del recettore per l’angiotensina (ARB). La mortalità ospedaliera media per i pazienti si è assestata all’11%, nel gruppo di ipertesi al 21,3%. Non sono però emerse differenze, sia in termini di gravità della patologia sia di mortalità, nel gruppo degli ipertesi tra coloro che assumevano i farmaci per la pressione alta e coloro che, invece, non erano in terapia. Queste prime evidenze cliniche suggeriscono che i farmaci per l’ipertensione non influenzano mortalità e gravità dell’infezione da Sars-CoV-2, supportando quindi le linee guida secondo cui i pazienti con pressione alta non devono sospendere la terapia.
Redazione Nurse Times
Fonte: Corriere della Sera
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