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Coronavirus, il coraggio di Vanda: l’angelo delle tribù amazzoniche

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Coronavirus, il coraggio di Vanda: l'angelo delle tribù amazzoniche
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L’infermiera indigena Vanderlecia Ortega dos Santos lotta per salvare vite nella foresta del Brasile settentrionale.

“Ho iniziato per caso”, racconta Vanda al sito Oliberal, che è andata a trovarla nel cuore dell’Amazzonia, a Parque das Tribos, territorio abitato da 700 famiglie delle 35 tribù indigene nel nord del Brasile. “C’era un uomo di 69 anni, Vincente, di etnia piratapuia, che aveva febbre alta e respirava a fatica. Si rifiutava di andare in ospedale a Manaus. Non c’era verso di convincerlo. Aveva deciso di restare lì, nella sua capanna, e di morire. Mi hanno chiamato. C’era bisogno di un infermiere che parlasse la sua lingua, che gli dicesse chiaro e tondo quello che sarebbe successo e che doveva assolutamente trasferirsi. Mi hanno accompagnato, ho visitato il paziente, l’ho rassicurato e alla fine lo abbiamo portato in città. Ho capito che dovevo fare qualcosa. Subito. Mi guardavo intorno e vedevo la gente che si ammalava e poi moriva. Il Covid 19 era arrivato anche da noi, portato da qualcuno che probabilmente era andato a comprare da mangiare e delle medicine”.

Oggi Vanderlecia Ortega dos Santos, per tutti Vanda, tenace infermiera di 32 anni, il profilo che ricorda le sue origini indigene witoto, è diventata il nuovo angelo delle tribù amazzoniche minacciate da “genocidio”, come denuncia il sindaco di Manaus, Arthur Virgílio Neto, fervido sostenitore di Bolsonaro che adesso accusa di “aver difeso la legalizzazione delle miniere clandestine nelle riserve indigene invece di preoccuparsi della salute delle 44 tribù già contagiate”.

Tutti i giorni Vanda indossa guanti e mascherina, la tuta protettiva e inizia le sue visite. Un pellegrinaggio di casa in casa, a bordo di moto, lance, trattori, a piedi, su muli, in bicicletta. Parla con tutti, visita gli ammalati, distribuisce antinfiammatori, spiega come attrezzare dei respiratori artificiali con l’ossigeno da pompare a mano. “Con il coronavirus il tempo è tutto – spiega –. Bisogna intervenire subito e spesso, quando arrivo, i pazienti sono al limite. Non respirano. Dovrebbero essere intubati, messi in terapia intensiva”.

In tutto il Paese ormai la situazione è drammatica. Il Brasile ha riportato il più alto bilancio giornaliero di morti per Covid-19 al mondo con 1.039 decessi. Per il quinto giorno consecutivo è il Paese più colpito del pianeta. L’Organizzazione Panamericana di Salute, braccio dell’Oms nel Continente, stima che entro agosto il Brasile potrebbe avere fino a 88 mila morti. Lo studio analitico di una università di Washington si spinge oltre e parla di 125 mila vittime nello stesso mese. Entrambi invitano ad adottare subito un rigido lockdown. Il tutto mentre l’Organizzazione mondiale della Sanità annuncia che l’America Latina è diventata l’epicentro mondiale della pandemia, dove i contagi sono quasi 800 mila. 

In mezzo alla giungla, con Manaus distante chilometri, con gli ospedali già stracolmi e la gente che fa la fila all’accoglienza, è quasi impossibile salvare chi arriva con i polmoni e gli altri organi compromessi. La capitale dello Stato di Amazonas è uno dei grandi focolai in Brasile. Complice l’umidità, l’alta densità della popolazione, i messaggi contrastanti che arrivavano dal governo centrale, con la arcinota ritrosia di Bolsonaro a riconoscere il virus e la gravità dei contagi, questa metropoli avvolta dalla foresta pluviale è arrivata in ritardo al suo appuntamento con il mostro pandemico.

Mentre la città scopriva di essere ormai contagiata e il coronavirus si tuffava tra la gente ammassata nei mercati del pesce all’aperto, tra le vie intasate di auto, tra le folle che assiepavano i centri commerciali, negozi, bar e ristoranti, gli indigeni delle tribù si ritiravano all’interno della giungla e si imponevano un lockdown. C’era il problema del cibo, degli approvvigionamenti, del gasolio per spostarsi sui fiumi e sulle strade sterrate. Bisognava tornare in città o frasi portare le cose. Il contagio è stato quasi inevitabile. Davanti ai primi allarmi degli scienziati e medici, il sindaco Neto parlò di “isteria” e di “esagerazioni”. Ma solo tre giorni dopo già decretava una prima ordinanza con la quale suggeriva l’uso di protezioni e consigliava “la distanza sociale”.

I casi sono aumentati in modo esponenziale, gli ospedali sono stati presi d’assalto, le sale di rianimazione intasate. L’allarme è scattato una settimana dopo. Ma era tardi. Il 20 maggio scorso, 69 giorni dopo la dichiarazione mondiale della pandemia, c’erano 44 tribù indigene infiltrate dal Covid 19. L’Articulation of Indigenous People o Brazil (Apib), una ong presente nell’area, denunciava 980 casi di infezione e almeno 125 vittime. Il tasso di mortalità aveva raggiunto il 12,6 per cento, rispetto al 6,4 della media brasiliana. La Segreteria speciale per la salute indigena (Sesai), collegata al ministero della Salute, parlava invece di 402 casi di infezione e di 23 decessi.

La differenza dei numeri, secondo gli esperti, è dovuta al fatto che nei conteggi il governo esclude gli indigeni che vivono nelle aree urbane. La mancanza di tamponi, di test e di controlli a tappeto, impedisce di avere una fotografia aggiornata della pandemia. Capita ovunque nel mondo, figuriamoci in un territorio privo di posti medici e di attrezzature di base.

Il Coordinamento delle organizzazioni dei popoli indigeni dello Stato brasiliano di Amazonas (Coipam) ha inviato una lettera alle Nazioni Unite e alla Procura federale del luogo per sollecitare maggiore attenzione sull’aumento dei casi di coronavirus e spiegare che i villaggi indigeni sono nei fatti abbandonati. “Il Governo – aggiunge il coordinatore del Coipam, Zenilton Mauro a un giornalista di Oglobo – non ci ha aiutato con test rapidi. Non stiamo ricevendo alcun supporto. Stessa cosa da parte del governo federale. Non riescono a raggiungere i villaggi indigeni”.

La Fondazione Oswaldo Cruz, sostenuta dal ministero della Salute, ricorda che 7,8 milioni di brasiliani vivono ad almeno 4 ore di distanza dalla prima località attrezzata per curare gli ammalati da coronavirus. I collegamenti avvengono con aerei usati soprattutto da uomini d’affari e, in tempi normali, dai turisti. Gli indigeni sono gli ultimi. Solo ora si è attivata una spola con i pochi biplani disponibili.

Il numero di infezioni da Covid-19 è aumentato di 12 volte negli ultimi due mesi. Gli appelli che si sono susseguiti nelle scorse settimane, compreso quello di Sebastião Salgado che ha fatto il giro del mondo, hanno attirato l’attenzione senza però produrre fatti concreti. Basta osservare il resto del Brasile, immerso nel cuore della pandemia che adesso picchia duro in America Latina. Le tribù indigene erano le più indifese e adesso sono le più esposte. A fronteggiare il “genocidio” restano i volontari. Come Vanda. Una guerriera contro le truppe subdole e silenziose del coronavirus.

Redazione Nurse Times

Fonte: la Repubblica

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