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Coronavirus: diario di un’infermiera in prima linea.

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Coronavirus: diario di un'infermiera in prima linea.
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Riceviamo e volentieri pubblichiamo la testimonianza e le riflessioni della collega Hind Oudades.

Oggi sono 20 giorni dalla laurea e due settimane dall’inizio del lavoro. Quel primo giorno… in cui ai timori e alla preoccupazione si era aggiunta la quantità di protezioni da indossare, come se il peso non fosse già abbastanza. Ricordo che ero anche un po’ contenta, mi sentivo quasi fiera di me e di quello che stavo facendo. Mi sono anche illusa, a fine turno, quando ero quasi convinta di poter tornare alla nortalità, a respirare senza mascherina. Invece no, non valeva più la regola “fuori dal reparto spensierata e felice”, ma c’era preoccupazione anche lì. Una preoccupazione cronica, fastidiosa, insopportabile.

Se dal punto di vista dell’esperienza e del “farsi le ossa” sono passati solo pochi giorni, dal punto di vista emotivo e psicologico ne sono passati davvero tanti. Siamo stati lanciati in questa situazione esplosiva con in mano solo i nostri tre anni di studio e 1.500 ore di tirocinio, che non sono nulla in confronto a ciò che realtente serve per far fronte a tutto ciò.

Vedo e penso che in realtà facciamo fatica tutti, anche i più esperti, i medici stessi, che hanno sempre la soluzione al problema. E’ un boot chee ci ha colti alla sprovvista, impreparati nel contesto in cui eravamo più vulnerabili. Ogni giorno è come se dovessi entrare in reparto per la prima volta: stessa ansia, stessa paura di non essere all’altezza, stessa paura dell’inaspetato e dell’ignoto. Perché è vero: non si sa mai quello
che potrebbe succedere là dentro; bisogna sempre stare sull’attenti.

Insieme a queste emozioni negative, però, ho sempre tanta voglia di fare, di imparare, di rassicurare e cercare di far sorridere i pazienti. Già, loro, “abbandonati” in un letto d’ospedale, senza nessun famigliare che possa
stringere loro la mano o stargli vicino. E’ la cosa più atroce e malinconica che a una persona possa succedere. Una solitudine che si legge nei loro occhi e nei loro silenzi. Hanno paura di morire soli, senza nessuno che li accompagni nel loro tragitto, senza nessuno che li protegga e li faccia sentire più sollevati.

Si affidano a noi per ogni cosa, ci stringono forte per trovare un po’ di pace e conforto. Cercano di decifrare i nostri occhi, che sono l’unica espressione che possono captare, e spero captino il nostro amore nei loro confronti, la nostra empatia, il nostro dispiacere. Quando si dice “gli occhi sono lo specchio dell’anima”… Non c’è frase più adatta, soprattuto in questo periodo.

Nel mio piccolo, durante il turno, cerco sempre di fermarmi alteno cinque minuti con ciascun paziente a chiacchierare un po’, a farlo sorridere. Oppure, a volte, sono loro che fanno sorridere me, perché nonostante tutto c’è ancora chi è positivo e sorridente, e non vede l’ora di tornare a casa, dalla propria famiglia.

Mi rietpiono di “grazie”, di “sei il mio angelo custode”, di “tu sei speciale”. E io sono lì, con le lacrime agli occhi, che devo lasciar asciugare da sole… Tanto chi le vede, sotto tutti quegli strati che abbiamo addosso? “Quando andrò a casa?”, mi cheiedono. Bella domanda. Vorrei potessi andarci subito. Vorrei che tu fossi felice e spensierato. Vorrei che tutto ciò non fosse mai successo.

Invece sta andando così. E’ un duro esame da superare, una prova molto difficile, che spero lasci qualcosa di positivo dentro di noi. Spero ci lasci quell’altruismo che in questi giorni è venuto a galla più che mai. Spero lasci
tanta bontà, tanta empatia, tanto amore. E che ci insegni a non dare più nulla per scontato, ad abbracciarci di più, a dire meno “no”, a vivere la vita così com’è, a divertirsi e a essere spensierati, prima che mostri come questo ci privino di tutto ciò.

Vivere tutto ciò mi sta davvero trasfortando. Mi sento già diversa e un pizzico più cresciuta. Ovviamente non sono nessuno in confronto a chi si è trovato a combattere questa pandemia sin dai primi giorni, ma per il piccolo contributo che fornisco, per la passione che sento scorrere nelle
mie vene, per la pelle d’oca che mi viene nei moenti più difficili, per come aiutare mi fa sentire bene, ora sto amando il mio lavoro più che mai.

Per quanto questa situazione possa essere negativa, porta con sé una marea di lati positivi: maggiore spirito di gruppo, maggiore aiuto reciproco, maggiore disponibilità e comprensione, maggiore dedizione in ciò che si fa, maggiore attenzione ai dettagli, maggiore amore.

Sono certa che questo periodo ci farà bene, ma sopratuto spero che tutto ciò finisca presto, che vada davvero tutto bene come dicono e promettono i numerosi hashtag presenti sui social, e che tutto ciò rimanga solo un pezzo di storia, un ricordo indelebile da custodire nella memoria, nel nostro cuore.

Questo ritrovarmi in prita linea mi ha spaventato e ha scombussolato tutti i miei piani. Ha fatto nascere in me un senso di paura tale da spingermi quasi a rifiutarlo, ma la mia determinazione ha vinto, mi ha spinto a consegnare il modulo della disponibilità e mi sta guidando in questo percorso.

Come è inevitabile che sia, questo periodo lascerà un segno indelebile e indimenticabile dentro di noi. Spero di poter lasciare anch’io un bel ricordo nelle persone con cui sono venuta a contatto, pazienti e non. Spero che i miei occhi abbiano sorriso proprio come la mia bocca fa sempre. E spero che le mie mani abbiano trasmesso l’amore e la positività che cerco di mettere ogni giorno in questo lavoro. Perché, se la soddisfazione non te la regalata la laurea, ora mi viene regalata ogni giorno da quello che faccio.

Grazie grazie di cuore a tutti quelli che in questo periodo stanno facendo qualcosa di positivo per aiutarsi a vicenda e migliorare la situazione. Diamoci una mano, ma da lontano.

Hind Oudades – Infermiera Asst Cremona

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