A lanciare l’allarme è uno studio condotto da un gruppo di ricercatori italiani.
Chi ha già contratto il coronavirus potrebbe non solo ammalarsi di nuovo, ma addirittura presentare sintomi più gravi. Mentre i centri di ricerca di tutto il mondo continuano gli studi per produrre una cura o un vaccino, l’ipotesi avanzata da sette esperti italiani e pubblicata sulla rivista scientifica BMJ Global Health, se confermata, potrebbe cambiare completamente l’approccio di ricercatori e medici alla cura e alla prevenzione del Covid-19.
Lo studio, realizzato da un gruppo di ricercatori guidato da Luca Cegolon, medico epidemiologo presso l’Ausl 2 Marca Trevigiana di Treviso, si concentra proprio sul tema dell’immunizzazione di un individuo dopo aver contratto il nuovo virus. In particolare, l’aspetto da definire è la durata degli anticorpi e se questi diano alla persona un’immunità permanente dopo il primo contagio.
Gli scienziati italiani hanno formulato la propria ipotesi basandosi sulle caratteristiche fino ad oggi conosciute del Sars-Cov-2, le reazioni delle persone che sono state infettate e facendo dei paralleli con altri tipi di coronavirus simili a quello che si è diffuso in tutto il mondo dall’inizio del 2020. Proprio analizzando i coronavirus umani, famiglia alla quale appartiene il Sars-Cov-2, gli scienziati hanno rilevato che quattro dei sette ceppi conosciuti creano sindromi respiratorie lievi e tutti causano re-infezioni, indipendentemente dall’immunità umorale che si acquisisce dopo essere guariti dalla malattia.
Nei casi più gravi conosciuti, il Mers-Cov e il Sars-Cov, che sono anche quelli più simili per caratteristiche al nuovo Sars-Cov-2, rispettivamente con una somiglianza genomica del 50% e del 79%, è stato identificato un fenomeno noto come Antibody Dependent Enhancement (Ade): in pratica, il legame tra virus e anticorpi crea le condizioni per permettere una nuova infezione, che si può anche presentare con una maggiore virulenza, così come accade, oltre che in questi coronavirus, anche con i flavivirus come la Dengue, il West Nile, la febbre gialla e la Zika. Traduzione: in caso di seconda ondata, chi ha già contratto il virus potrebbe ammalarsi di nuovo e in forma più grave.
Oltre alle caratteristiche simili di Sars-Cov-2 e Sars-Cov e Mers-Cov, che fanno quindi ipotizzare che il fenomeno Ade possa replicarsi anche con quest’ultimo virus, gli scienziati hanno anche rilevato che tale meccanismo presenta caratteristiche molto simili al quadro clinico dei casi critici di Covid-19: polmonite interstiziale con sindrome da distress respiratorio acuto (Ards), linfopenia, aumento dei neutrofili, tempesta di citochine, forte riduzione dell’interferone.
“Le analogie – ha spiegato Cegolon, parlando a Repubblica – sono molte, come dimostra la diminuzione dei livelli dell’interferone, che serve a difenderci dalle infezioni, e dei linfociti mentre aumentano i fagociti, che sono responsabili di un quadro polmonare gravemente compromesso e caratterizzato da una tempesta di citochine”. Ma l’ipotesi degli scienziati italiani potrà eventualmente avere conferme su larga scala solo in caso di una seconda ondata, che esporrebbe di nuovo al virus persone già risultate positive in questa prima parte del 2020.
L’ipotesi del team italiano apre a una prospettiva preoccupante. “Per nessun coronavirus – continua Cegolon – è mai stato possibile produrre e commercializzare un vaccino efficace. Neppure per quelli temibili che, come il Sars-CoV-2, causano sindromi respiratorie acute severe, cioè il Middle-East Respiratory Coronavirus (Merc-CoV) e il Sars-CoV, che causò la famosa epidemia cinese nel 2003”.
Questo perché il meccanismo che ne ha impedito la produzione fino ad ora non è ancora chiaro: “Ma sicuramente l’immunità umorale – conclude il ricercatore –, cioè gli anticorpi prodotti in seguito a una prima infezione, non sembrano avere un ruolo protettivo. E infatti i coronavirus sono noti per causare re-infezioni, indipendentemente dall’immunità acquisita”.
Redazione Nurse Times
Fonte: il Fatto Quotidiano
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