Una parziale soluzione potrebbe partire dalla formazione dei giovani, affinchè già dalle scuole e dai propri nuclei familiari siano guidati verso il civico rispetto di chi si prende cura della nostra salute.
Il fenomeno delle aggressioni negli ospedali è un vortice senza fine per i nosocomi napoletani. Lo sanno bene soprattutto gli infermieri dell’ospedale Antonio Cardarelli, che denunciano una situazione sempre più insostenibile per via di continue violenze subite durante il lavoro. Come nasce il fenomeno della violenza?
La violenza sui luoghi di lavoro è così definita dal National Institute of Occupational Safety and Health: “Ogni aggressione fisica, comportamento minaccioso o abuso verbale. Gli atti di violenza consistono nella maggior parte dei casi in eventi con esito non mortale, ossia aggressione o tentativo di aggressione, fisica o verbale, quale quella realizzata con uso di linguaggio offensivo”. In sostanza, ogni azione che adoperi forza, fisica e non solo, per provocare danno alla persona, ai suoi beni, o ai suoi diritti. Quindi l’abuso della forza, anche con sole parole, maltrattamenti morali, minacce o ricatti, come mezzo per costringere, prevaricare gli individui, costringendoli a ad agire contro la propria volontà, va sotto il nome di violenza a carico degli operatori sanitari.
Il ciclo dell’aggressione è caratterizzata da cinque fasi:
- Fase del fattore scatenante: in questa fase si ha un primo allontanamento del base line dell’aggressore.
- Fase dell’escalation: nella seconda fase si ha un’evoluzione emotiva e psichica più accentuata nella persona.
- Fase della crisi: nella fase di mezzo bisogna concentrarsi sia sulla sicurezza personale che su quella dell’interlocutore. Se non si ottiene una risposta razionale dall’individuo si deve pensare ad un’autoprotezione, al contenimento o alla fuga.
- Fase del recupero: nella penultima fase si ha un ritorno progressivo al base line dell’aggressore. È necessario evitare troppi stimoli che potrebbero riportare ad una riacutizzazione.
- Fase della depressione post-critica: in quest’ultima la persona potrebbe sentirsi afflitta dai sensi di colpa turbata e quindi sensibile ad un intervento psicologico per capire quale sia stato il motivo scatenante dell’episodio.
La letteratura documenta che più di un terzo degli operatori sanitari a livello mondiale è vittima di aggressioni verbali, fisiche, mobbing e molestie. Questi episodi di violenza, reiterati nel tempo, provocano conseguenze negative sia dal punto fisico, psicologico e professionale. Episodi che sono in forte aumento e non accennano a fermarsi: fino al 2019 si erano raggiunte 213 pubblicazioni su riviste scientifiche riguardanti l’argomento, in crescita costante negli anni già a partire dal 1992, secondo le analisi condotte a livello globale.
In Italia, nel 2021, è stato condotto uno studio multricentrico nazionale intitolato Episodi di violenza rivolti agli infermieri italiani sul posto di lavoro. Tale studio ha evidenziato che mediamente fino a un terzo degli infermieri in un anno subisce violenza durante il servizio, e che la principale conseguenza psicologica è il burnout, oltre ad escoriazioni, abrasioni, fratture e lesioni, che sono le principali conseguenze fisiche delle aggressioni. E anche a livello economico i danni non mancano dopo episodi di violenza.
La Legge n. 113 del 14 agosto 2020 (“Disposizioni in materia di sicurezza per gli esercenti le professioni sanitarie e socio-sanitarie”) nasce per reprimere gli atti di violenza nei confronti dei professionisti sanitari, e con il suo intervento vengono promossi sia interventi di carattere penale che di natura amministrativa, come le sanzioni pecuniarie da applicare contro gli aggressori. Vi è stato un evidente inasprimento delle pene, ma le misure organizzative e preventive rimangono in ogni caso di responsabilità di ciascuna struttura assistenziale coinvolta.
La Raccomandazione n. 8 del ministero della Salute (“Raccomandazione per prevenire gli atti di violenza a danno degli operatori sanitari”) già dal novembre 2007 invitava le direzioni aziendali ad implementare programmi di prevenzione dalla violenza e formazione del personale sanitario. Misure che negli anni sono state inserite e accolte, ma non risultate sufficienti per arginare il fenomeno. Basti pensare che nel più grande ospedale del Mezzogiorno d’Italia le aggressioni ai danni del personale sono state almeno 30 solo nell’ultimo anno, e circa 40 le giornate di malattia che hanno dovuto richiedere gli operatori vittime di violenza. Il direttore generale Antonio d’Amore ha espresso la volontà di farsi carico del fenomeno, che contribuisce in larga parte ad acuire la carenza di personale nei pronto soccorso e nei servizi 118, ponendosi dalla parte di tutti i professionisti che quotidianamente subiscono maltrattamenti, minacce, prevaricazioni.
Una soluzione parziale del fenomeno potrebbe partire dalla formazione dei giovani, affinchè già dalle scuole e dai propri nuclei familiari siano guidati verso il civico rispetto di chi si prende cura della nostra salute. Un intervento, questo, che fatica a insediarsi nel contesto napoletano, in quanto le scene che si presentano sono molto simili tra di loro: il paziente che arriva in condizioni critiche è seguito da interi nuclei familiari, che si scatenano contro gli infermieri di turno, a loro dire responsabili del decesso o dell’aggravamento delle condizioni del parente.
È importante, in questo momento storico di cronica carenza del personale, trasmettere alla popolazione un messaggio forte: gli infermieri non sono i colpevoli da punire, ma professionisti che fanno tutto il possibile per salvare vite, anche a fronte di ritmi senza tregua. L’auspicio è che cresca tale consapevolezza e sia ancora più fortificata la formazione del personale, così che sia pronto a difendersi da aggressioni gratuite.
Anna Arnone
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